Scrivi che ti passa!

“Canta che ti passa”: la funzione terapeutica del canto è nota sin dall’antichità, e ha ispirato miti come quelli del cantore Orfeo.

E se invece la cura fosse “scrivi che ti passa”?

Proviamo a vedere perché scrivere potrebbe risolvere gli eccessi emotivi: iniziamo osservando alcune evidenze neurofisiologiche.

Nell’ultima decina di anni diversi studi hanno rivolto il proprio interesse in merito alla relazione tra le pratiche Mindfulness [1] e la regolazione emotiva (Marchand, 2014). Molteplici evidenze empiriche sottolineano l’efficacia di tali tecniche in merito all’aumento dell’inibizione dell’ipereccitazione dell’amigdala resa possibile grazie al potenziamento della corteccia prefrontale.

Che cosa significa?

Nella prima figura è evidenziata la struttura cerebrale frontale mentre nelle altre due è evidenziata in rosso l’AMIGDALA, nelle due posizioni spaziali.

L’amigdala è l’area risultata deputata alla reazione fisiologica e comportamentale a tutto ciò che è considerato doloroso, spiacevole, cioè a tutti gli stimoli nocivi. E’un’area che produce risposte inconsce e automatiche. In parole povere la potremo considerare il freno a mano che ci inchioda al semaforo rosso.

Ora, ciò che è molto importante è sapere che per il cervello umano “immaginare visivamente delle cose non è differente dal vederle”[2]. Su questo punto tornerò a breve.

Le strutture frontali, come del resto tutte le strutture cerebrali corticali, cioè quelle più esterne nella stratificazione fisica, sono zone in cui arrivano le informazioni a livello cosciente.

Se immaginiamo le differenti aree del cervello come delle stanze di una casa, potremmo costruire una metafora del genere: sono in salotto, vedo un’ombra e automaticamente scappo pensando che sia un topo = ho acceso la luce in cucina senza esserne consapevole, per scappare da un topo che è in salotto.

Se invece vedo un’ombra e mi chiedo cosa possa essere, è come accendere immediatamente la luce in salotto per vedere di che cosa si tratta.

Uno scorretto equilibrio tra le strutture frontali ed il sistema limbico (dove risiede l’amigdala) è infatti alla base dei principali disturbi dell’umore. L’amigdala è l’archivio della nostra memoria emozionale, per ciò analizza l’esperienza corrente, con quanto già accaduto nel passato: quando la situazione presente e quella passata hanno un elemento chiave simile, l’amigdala lo identifica come una associazione ed agisce, talvolta, prima di avere una piena conferma. L’amigdala può reagire prima che la corteccia sappia che cosa sta accadendo, e questo perché l’emozione grezza viene scatenata in modo indipendente dal pensiero cosciente, e generalmente prima di esso.

In parole povere, questa area cerebrale ci conduce ad agire automaticamente.

Il problema dei processi automatici è il motivo per cui l’esperienza dell’attenzione focalizzata nelle pratiche di  Mindfulness risulta efficace  in tutti i casi di disequilibrio emozionale. Si può osservare infatti come questa pratica sfoci nel concetto di consapevolezza, raggiunto attraverso le tecniche di concentrazione orientata in modo esclusivo su un determinato “oggetto”.[3]

Senza addentrarci ulteriormente nei meandri delle numerose ricerche che convalidano l’utilità delle pratiche meditative, ritengo utile “conservare” il concetto di attenzione focalizzata per proseguire in questo breve percorso di ricostruzione della pratica della scrittura.

Spostandoci sul versante psicologico, fondamentali sono gli studi di P. Watzlawick.

Le tesi centrali alla base del pensiero di questo autore sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.

A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in “Pragmatica della comunicazione umana”[4] non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.

Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come “guarigione”, ma come “cambiamento”. Secondo l’autore sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo (come percepiamo e interpretiamo il mondo).

Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni.

Gli studi svolti nell’ambito della suddivisione di competenze tra i due emisferi hanno condotto in modo molto superficiale, ad una distinzione netta tra i due emisferi: il destro deputato agli aspetti logico-razionali e il sinistro deputato agli aspetti creativi.

Ricerche più recenti hanno messo in luce una situazione molto più articolata.

È il momento di ritornare all’affermazione citata poco fa: “immaginare visivamente delle cose non è differente dal vederle”.
Durante alcune ricerche sulla formazione di immagini mentali a occhi chiusi, Kosslyn ha notato una “via neurale” che coinvolge la parte “alta” del cervello (che comprende il lobo parietale e la parte superiore del lobo frontale), che utilizza le informazioni provenienti dall’ambiente per decidere gli obiettivi e le strategie da seguire. Nella parte “bassa” (formata dalla sezione inferiore del lobo frontale e dai lobi temporale e occipitale) sembra attiva una diversa “via neuronale”, che confronta le percezioni con le informazioni in memoria per interpretare e classificare oggetti e situazioni.
A seconda delle preferenze nell’utilizzo della parte “alta” o “bassa” del cervello, la “teoria delle modalità cognitive” consente di delineare quattro modalità principali di pensiero: “dinamica”, “percettiva”, “stimolativa”, “adattiva”.
Non è semplice descrivere che cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo, quando elaboriamo gli stimoli sensoriali, quando pianifichiamo o eseguiamo attività motorie; sappiamo, però, che vengono coinvolte numerose aree dei diversi lobi (frontale, parietale, temporale e occipitale) in entrambi gli emisferi.

Ciò che ci è utile in questa osservazione è comprendere come tra il pensiero e il movimento/azione, si attivano aree cerebrali differenti.
Numerosi neuro scienziati[5] stanno esplorando che cosa accade realmente nel cervello durante il processo creativo. Emergono tre aree coinvolte nelle varie fasi (chiarificazione, ideazione, elaborazione, selezione, applicazione) del processo creativo.
Se svolgiamo attività che richiedono un’attenzione focalizzata, (utilizzata dalla Mindfulness) come, ad esempio, seguire una lezione impegnativa o analizzare un problema complesso, si attivano connessioni (Executive Attention Network) tra le regioni della corteccia prefrontale e le aree della parte posteriore del lobo parietale.

Quando dobbiamo costruire immagini mentali di esperienze passate, pensare a progetti futuri o immaginare alternative a scenari attuali, entrano in azione aree profonde della corteccia prefrontale, del lobo temporale e varie regioni (esterne ed interne) della corteccia parietale. Questa rete di collegamenti (Imagination Network) è coinvolta anche nelle relazioni sociali, quando cerchiamo di immaginare, ad esempio, a che cosa stia pensando il nostro interlocutore.
Il terzo “circuito cerebrale” (Salience Network) monitora costantemente sia gli eventi esterni, sia il flusso di coscienza interno e, a seconda delle circostanze, dà la precedenza alle informazioni più salienti per risolvere il compito. Coinvolge la corteccia prefrontale mediale (cingolata anteriore) e la corteccia insulare anteriore. Questo “circuito” si incarica, inoltre, di attivare ed alternare l’Executive Attention Network e l’Imagination Network.

Tornando agli assunti proposti da Watzlawick e osservandoli trasversalmente con gli studi di fMR e le ricerche sulla Mindfulness, può iniziare a emergere perché spostare il pensiero sulla scrittura può risultare benefico: scrivere consente di “spegnere” alcune aree cerebrali e lasciare che se ne accendano altre.

Ma perché è così utile che si spenga l’area ipotalamica (che comprende anche l’Amigdala) e si accenda un’area corticale?

Perché la zona ipotalamica oltre a dare spazio ad azioni automatiche (quindi spesso non funzionali) è anche sede della possibilità di godere di qualcosa.

Riassumendo: quando mi accorgo di sentire troppa paura, troppa rabbia, troppo dolore, posso SCRIVERE. Scrivendo, sposto il contenuto dei miei pensieri in una zona cerebrale che mi aiuta in due modi: libera la zona che può farmi godere di cose belle presenti in quel momento e consegna alla parte analitico/razionale l’elaborazione dell’emozione in eccesso, consentendo in tempi brevissimi di percepire il rallentamento dei pensieri prima, e l’alleggerimento della sensazione angosciosa poi.

Potremo dire che scrivere è una “forma meditativa” che come nella Mindfulness attiva la fatidica attenzione focalizzata così preziosa per sentirsi più leggeri e liberi da pensieri persecutori o intrusivi che non ci consentono di vivere appieno del presente.

Se è vero che ciò che viviamo è ciò che esperiamo quotidianamente, è fondamentale fare esperienze positive e gratificanti. Per poterlo fare abbiamo bisogno di liberarci di tutti quei pensieri inutili che vengono prodotti da eccesso emotivo incongruo.

E così,… SCRIVI CHE TI PASSA!

Per concludere vi propongo un esperimento.

Poniamo una situazione in cui siete molto arrabbiati con qualcuno, tanto da fare fatica a concentrarvi sulle vostre azioni quotidiane.

La sera, scrivete una lettera a questa persona che inizi con “caro/a…….” e che continui con tutti gli insulti e improperi che vorreste potergli urlare. Fino a completa soddisfazione. Quando avete finito, la riponete in un cassetto al sicuro.

Questo per ogni sera necessaria fino allo scemare della rabbia.

Raggiunto lo scopo di liberarvi della rabbia in eccesso, potete gettare le lettere.

Buona scrittura.

 

Per approfondire i temi trattati:

  • “La Mindfulness. Il non fare, l’accettare e il fare consapevole.” Rainone, Cognitivismo clinico 2012.
  • “Effects of mindful-attention and compassion meditation training on amygdala response to emotional stimuli in an ordinary, non-meditative state. Frontiers in Human Neuroscience.”
  • “Mindfulness-based interventions in context: past, present, and future.”, Kabat-Zinn J., Am  Psychol Assoc, 2003.
  • “Fisiologia del comportamento”, N. Carlson, Ed. Piccin-Nuova Libraria, 2014.
  • “Psicofisiologia Degli Eventi Critici: verso la consapevolezza del Se’ e dell’ Altro”, Bertuzzi, Cornali, Bertoli, Arnoul, Ed. Edra – Masson, 2018.
  • Watzlawick, “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi” ed. Astrolabio, 1978.
  • Watzlawick, “Change: la formazione e la soluzione dei problemi”, ed. Astrolabio, 1974.
  • Watzlawick, “La realtà inventata”, ed. Feltrinelli, 1988.
  • Watzlawick, “Istruzioni per rendersi infelici”, ed. Feltrinelli, 1997.
  • Watzlawick, “Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico”, ed Feltrinelli, 1988.
  • Watzlawick, “Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica”, ed. Feltrinelli, 1999.

Note:

[1] Letteralmente, la parola Mindfulness “mente piena” deriva dalla lingua Pali “Sati” e significa “attenzione consapevole”. Più in generale può essere definita come una particolare pratica meditativa, ma principalmente è una naturale capacità della mente umana che permette la gestione dello stress infondendo uno stato di rilassamento e di alterazione della coscienza come l’ipnosi, il training autogeno e il rilassamento progressivo (Vaitl et al., 2005).

[2] “Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo”, Beau Lotto, Ed. Bollati Boringhieri, 2017.

[3] “Mindfulness-based interventions in context: past, present, and future.”, Kabat-Zinn J., Am Psychol Assoc, 2003.

[4] “Pragmatica della comunicazione umana”, P. Watzlawick, J.H. Beavin,D.D.Jackson, ed. Astrolabio, 1978.

[5]Jeremy Gray (Michigan State University), Adam Green (Georgetown College), John Kounios (Drexel University, Philadelphia), Rex Jung (University of New Mexico), Kalina Christoff (University of British Columbia)

 

 

 

 

 

 

La ruggine che corrode da dentro: narrazione e clinica del DOCP

Il test di Rorschach è sicuramente il test proiettivo più famoso nel mondo.

Tutti, o quasi, hanno visto almeno una volta una tavola passare in un’immagine di un film o dal vivo. Tutti sanno o pensano a questo strumento come ad un mezzo per delineare la personalità di un soggetto e quindi, in gergo tecnico, “fare diagnosi”.

Vero. Ma i test proiettivi si possono utilizzare anche in seduta psicoterapeutica e nello specifico il test di Rorschach con le sue produzioni di engrammi può essere utilizzato con le tecniche della psicoterapia Gestaltica, in una modalità simile al lavoro sul sogno.

Conoscendo profondamente lo strumento, mentre il soggetto vive un blocco specifico, presentare la tavola che elicita il tema può diventare un elemento di sblocco.

All’interno del testo “Il Rorschach e i metodi proiettivi come possibilità narrativa”, a cura di Gabriella Gandino e Doriana Di Paola, edito da Aracne nel novembre 2018, si può trovare il mio intervento con la descrizione di un mio caso presentato al convegno dell’AIR (Associazione Italiana Rorschach) con questa modalità.

Il caso è un DOCP con il quale l’intervento con la tavola IV del Rorschach è risultato particolarmente efficace. Dopo quella seduta il paziente ha potuto cambiare prospettiva nei confronti di una narrazione fino ad allora particolarmente dolorosa.

Buona lettura

Ansia che passione!

Salve.

Se siete qui, forse è anche perché avete cercato in rete la parola “ansia” o spiegazioni in merito a questo stato. Iniziamo a dare una connotazione semplice. Chiedendo al dizionario, la risposta è:

  1. affannosa agitazione interiore provocata da bramosia o da incertezza.
  2. in psichiatria, senso di apprensione simile all’angoscia.

Ora proviamo ad addentrarci un poco più in profondità.

Cosa si intende per “bramosia”?

La bramosia è un “ardente desiderio di qualcosa (godimento, vendetta, ricchezza, riconoscimento, etc.)

Secondo l’Enneagramma di C. Naranjo alcuni tipi di carattere provano spesso un senso di bramosia, di melanconia o di invidia per ciò che manca. Questo li condanna alla visione del “bicchiere sempre mezzo vuoto”, alla personale gabbia del perennemente incompleto, per la quale non ci si può mai sentire a posto, sicuri, appagati. In estrema sintesi, non vi è la capacità di godere per ciò che è, di sentirsi grati per ciò che si vive.

Questa è sicuramente una delle prime osservazioni che si possono fare sull’Ansia.

Se è la bramosia che mi spinge, è molto probabile che non riuscirò mai a raggiungere uno stato di benessere interno, semplicemente perché la méta che mi sono posto è irraggiungibile. In questa descrizione rientrano tutti i tipi di ansia da prestazione e ansia sociale (un’eccessiva preoccupazione del giudizio altrui).

Qui si può mettere nel cassetto il primo strumento da utilizzare:

  • Posso accettare di essere “imperfetto” e di sentire che vado benissimo così come sono. Tra Peter Parker e L’uomo ragno non c’è differenza.

Cosa si intende per incertezza?

  1. mancanza di esattezza, chiarezza, stabilità.
  2. limitazione all’efficienza del comportamento, provocata da condizioni di dubbio o d’indecisione.

In tutti i passaggi di questa definizione possiamo estrapolare due oggetti: un esubero di emozionalità che conduce al calo di lucidità cognitiva e il dubbio.

Qui si deve necessariamente spendere qualche parola in più.

L’eccessiva preoccupazione del giudizio-riconoscimento da parte del mondo esterno (principalmente delle figure a me particolarmente care) di cui abbiamo appena parlato, produce il meccanismo paradossale di renderci meno performanti.

Nel momento in cui metto al centro della mia attenzione il desiderio (bramosia) di essere apprezzato-amato, circa l’80% della mia energia si disperde in pensieri del tipo “il vestito mi starà bene?”, “speriamo che nelle slide della presentazione non ci siano errori”, “devo superare la dialettica del collega che mi ha preceduto, altrimenti mi soffia il posto”, etc.

Mentre formulo (inconsapevolmente) questi pensieri, l’attenzione realmente necessaria a quanto devo fare si diluisce. Viene come resa fumosa da tutti gli altri pensieri e questo renderà la mia esposizione oggettivamente peggiore di quanto avrei potuto.

Alla base di un tale processo vi è spesso una serie di convinzioni illogiche: “io non vado bene e devo sforzarmi al massimo per sperare di avere un posto nella vita”,

“io sono il migliore, ma nessuno mi capisce, è tutto inutile”.

Le motivazioni per le quali si siano insediate in noi tali convinzioni illogiche sono oggetto di un percorso di indagine e ristrutturazione durante una psicoterapia, in ogni caso proveremo anche qui a fornire un rudimentale strumento:

  • Nessuno è venuto al mondo per rispondere alle aspettative di qualcun altro. Chi mi ama, lo farà per sempre qualsiasi cosa io possa fare. Chi non mi ama, non mi amerà mai, qualsiasi cosa io possa fare: quindi tanto vale che io faccia solo ciò che sento e desidero più profondamente.

Veniamo al dubbio.

L’enciclopedia Treccani lo definisce come uno “stato soggettivo d’incertezza, da cui risulta un’incapacità di scelte, essendo gli elementi oggettivi considerati insufficienti a determinarle in un senso piuttosto che in quello opposto.”

Da questa definizione si può facilmente capire che la chiave di volta è nella domanda. Se gli “elementi oggettivi sono insufficienti” è normale non sapere quale sia la risposta esatta!

Qui ci si dovrebbe addentrare nel campo delle euristiche; non essendo possibile mi limiterò a fare un semplicissimo esempio utilizzando un’inferenza (rilevazione parziale).

Poniamo di incontrare un amico e collega professore universitario per la strada con dei pacchi in mano. È un giorno feriale e sono le 11.00 del mattino. Io sono in giro perché è il mio giorno libero.

Questi sono gli unici dati certi e oggettivi in mio possesso.

Evento: ci incrociamo sul marciapiedi, lo saluto e non mi risponde.

Quali sono le inferenze che posso fare? Intendo, quelle basate sui dati oggettivi reali.

  • Il mio amico oggi alle 11.00 non è all’ Università.
  • Il mio amico non mi ha salutato.
  • Il mio amico non sta guidando l’auto.
  • … e mille altre che in questo contesto risulterebbero solo dispersive.

Posso sapere perché non mi ha salutato?

No.

A meno che io non glielo chieda e decida di credere a quanto mi risponderà!

È lecito avere il dubbio che non mi abbia salutato perché non voleva far sapere che non era sul luogo di lavoro?

No.

Ci sono serie numerose di ipotesi, ma nessuna certezza: pochi elementi.

Un altro esempio può essere la scelta tra due contratti di lavoro:

  • Milano, € 000 mensili, 48 ore settimanali, azienda leader con circa 300 dipendenti età media 50. Contratto a tempo indeterminato.
  • Catania, €000 mensili, 40 ore settimanali, azienda giovane con 20 dipendenti età media 35. Contratto a tempo indeterminato.

Posso sapere qual è la scelta migliore?

No.

Posso solo fare tutte le valutazioni degli aspetti oggettivi in base alle mie proprie categorie di importanza per cercare di immaginare in quale condizione mi potrei trovare bene.

L’unica cosa che mi rimarrà da fare è agire. L’unica arma in mio possesso: poter cambiare strada se mi dovessi rendere conto che non mi piace.

Si può sempre cambiare idea!

Avere dubbi è naturale, il problema è quando ci facciamo bloccare da essi.

Il dubbio patologico è una forma specifica. È caratterizzato dalla presenza di domande alle quali la persona cerca di dare risposte, senza però trovarne mai una definitiva.

In questi casi il problema è nella domanda: si tratta di domande che non ammettono mai una risposta unica, ma solo risposte possibili che apriranno la strada inevitabilmente ad altre domande.

Le domande possono riguardare qualunque argomento: “come parlo?” “come guardo?” “avrò fatto bene a toccare quella cosa?” “sono omosessuale? Sono pazzo? Rischio di diventarlo?”, etc.

Non tutto nella vita si può risolvere razionalmente: la ricerca spasmodica di una risposta razionale ad una domanda irrazionale si può solo trasformare in una rimuginazione continua e infinita che produce un senso di ansia incontenibile.

Le sensazioni sono legate soprattutto all’ansia o alla paura di non essere mai all’altezza del lavoro, della scuola, delle relazioni, della vita in genere. Tutto viene vissuto allora come un grande peso e può essere presente uno stato di insoddisfazione che può anche essere confuso con sintomi depressivi, tanto da portare il medico a prescrivere farmaci antidepressivi.

Anche in questo caso sarà necessario un intervento di psicoterapia (a volte anche abbastanza breve), in ogni caso tenteremo di aggiungere un altro strumento:

  • Quando mi accorgo di aver posto una domanda irrazionale, devo ricordare che non ha una risposta univoca!
  • Di fronte a qualsiasi domanda che genera un dubbio, posso ricordarmi di avere sempre la possibilità di cambiare.

 

 

 

Traumi e conseguenze

Spesso mi chiedono se lo stato d’animo o il carattere di una persona dipenda più dalla genetica o dall’ambiente, o anche se un trauma subito può cambiare per sempre la vita di una persona. Rispondere sinteticamente non è cosa semplice, in ogni caso farò un tentativo.

Partiamo da questo schema (ripreso da “Analisi Transazionale e psicoterapia di E. Berne):

Immaginiamo che queste quattro colonne rappresentino la vita di quattro individui diversi. La linea superiore rappresenta il fenomeno osservabile (cioè quello che si pone in figura, ciò che diviene visibile all’occhio esterno).

Il soggetto A risulta in equilibrio e osservando il suo percorso di vita si può approfondire l’evidenza che non abbia avuto difficoltà particolarmente destabilizzanti.

Il soggetto B si mostra non perfettamente equilibrato: nella sua vita vi è stata una difficoltà che lo ha segnato particolarmente e dalla quale non ha saputo ripristinare un nuovo equilibrio.

Il soggetto C si mostra visibilmente disfunzionale. Nell’arco della sua vita si sono ripetuti momenti di difficoltà dello stesso genere, tali da rinforzare ogni volta la “cattiva postura” (esattamente come succede alla spina dorsale se si reitera una posizione scorretta ad esempio alla scrivania) fino a portarlo ad un rischio possibile di cedimento.

Il soggetto D ad uno sguardo superficiale si mostra in equilibrio. Osservando meglio la sua struttura interna, si può vedere come abbia sostenuto varie situazioni di difficoltà di ordine differente da formare un’instabilità intrinseca momentaneamente e fortunatamente compensata.

Facciamo ora degli esempi di vita possibile.

Il soggetto A è un bambino normo dotato che nasce in una famiglia serena ed equilibrata da un punto di vista psicoemotivo. Ogni difficoltà della sua vita viene vissuta in un ambiente capace di contenere e condividere ciò che sente e vive. Può permettersi di sentire ed esprimere sia la gioia che la paura o il dolore: ogni cosa ha la sua dignità e si può esprimere senza censure.

Il soggetto B potrebbe essere un bambino che perde la mamma all’età di circa 5 anni (ovviamente sono solo delle ipotesi di tipologie di eventi difficili). L’evento in sé è fortemente traumatico e genera senso di abbandono.

Ora le ipotesi sono molte, ne osserviamo due in particolare:

  • il bambino è normo dotato psicoaffettivamente, ma nasce in un ambiente che non riesce a contenere l’evento in modo equilibrato. Si fa finta di nulla, si piange di nascosto, non si parla più della mamma morta, ci si chiude a livello affettivo…, le figure di riferimento rimaste diventano fredde lasciando il bambino solo nel suo senso di abbandono. Questa esperienza rimane una ferita aperta e non guarita che influisce nel presente dell’adulto che potrà funzionare benissimo in tutte le aree razionali e potrà avere (è solo un’ipotesi) difficoltà ad esempio nelle relazioni intime.
  • il bambino è nato con delle fragilità psicoaffettive. Cresce in un ambiente molto equilibrato e capace di contenere l’evento traumatico. Le figure di riferimento riescono a vivere in modo sano ed equilibrato la perdita, l’affettività non viene persa e questo basta ad accompagnare il bambino ad un’età adulta abbastanza funzionante, dove la lieve flessione di funzionamento osservabile è data dalla sua particolare fragilità emozionale (in gergo si potrebbe definire un soggetto con scarsa resilienza).

Il soggetto C risulta visibilmente non equilibrato. Potremmo ipotizzare una storia di questo tipo: non desiderato alla nascita, osteggiato dai fratelli che lo relegano a “pecora nera” della famiglia, bullizzato a scuola, rifiutato nei tentativi di approccio sessuale in adolescenza, rimane single, trova un lavoro frustrante e dopo anni di dedizione subisce un mobbing. (questi alcuni esempi di crisi ripetute nella stessa direzione del sentirsi rifiutato)

La struttura familiare abbiamo già ipotizzato essere poco funzionale e anche se il soggetto avesse una grande resilienza (capacità di tenuta) verrebbe comunque messo a seria prova. Il risultato fenomenologicamente disequilibrato ha un’alta possibilità di verificarsi.

Il soggetto D sembra perfettamente funzionante. È un uomo in carriera, ha una bella famiglia, va d’accordo con tutti, ha molti amici e ottimi rapporti con la famiglia d’origine.

A cinquant’anni la moglie lo lascia per un altro uomo. Inaspettatamente lui “impazzisce”. Manifesta una rabbia incontrollata, litiga con tutti, nel tempo anche la sua azienda arriva a rischio di fallimento per la sua ormai quasi totale distrazione sul lavoro.

Ciò che non si vedeva in superficie era la sua fragilità di fondo. Si potrebbero ipotizzare eventi di questo tipo: un bambino normo dotato che nasce in una famiglia dove il babbo è poco presente e la mamma imposta una relazione di codipendenza. Negli anni impara che deve compiacere per mantenere lo stato dei luoghi e questo lo porta a ingoiare diverse situazioni frustranti di varia natura nel corso di tutta la sua esistenza. Un po’ come se avesse impostato la sua esistenza con un “sarò come tu mi vuoi e questo mi permetterà di essere sempre amato”. Quando il patto salta, salta tutto il resto.

Veniamo ora alle domande utili: Si può “raddrizzare la colonna”?   Si!   Qualsiasi tipo di trauma e qualsiasi tipo di conseguenza esso abbia lasciato, può essere trattato con buoni risultati.   A volte fino alla possibilità di riportarsi in equilibrio costantemente. A volte con qualche difficoltà in più (dipenda da quanto si è strutturata la “scoliosi”). Un buon percorso di psicoterapia è paragonabile a una buona ginnastica posturale per il recupero dell’assetto della spina dorsale. Certo è fondamentale la costanza e l’impegno e quindi una forte motivazione da parte della persona che cerca aiuto.

Rabbia e Aggressività: litigare è bene o male?

 Se state leggendo questo articolo potreste avere un rapporto contrastante con la rabbia. O forse siete solo curiosi.

Prima di tutto vorrei spezzare una lancia a favore di questa emozione, così spesso denigrata. La rabbia è l’emozione più importante tra le emozioni di base (quelle funzionali alla sopravvivenza della specie). Provate a pensare ad un leone che sta mangiando la sua preda. Improvvisamente ne arriva un altro che vuole rubargli il cibo. Se il leone non sentisse rabbia e non agisse con forza, morirebbe di fame, cedendo a tutti i leoni più prepotenti il suo pasto.

La rabbia è la spia che si accende quando si vive un’ingiustizia e che ci spinge a reagire per difenderci. Osservando le cose in questo modo si può capire subito che la rabbia è la spinta a prendere dal mondo ciò che mi serve (quando è ben canalizzata diventa assertività).

Il problema nasce quando si percepisce come ingiustizia una situazione che non lo è, o quando si pretende di prendere danneggiando qualcun altro agendo comportamenti aggressivi. Infatti, l’aggressività riguarda un comportamento messo in atto per colpire qualcosa o qualcuno. Può essere un comportamento fisico come picchiare o spingere qualcuno piuttosto che verbale come nel caso degli insulti rivolti contro la persona con la quale si è arrabbiati. Chi agisce con aggressività è profondamente svalutante nei confronti dell’altra persona con la quale si sta relazionando.

Ipotizziamo due polarità estreme: persone che dicono sempre di sì, gli accomodanti e persone che dicono sempre di no, gli oppositivi.

I primi non sopportano di trovarsi in situazioni di conflitto e le evitano con tutte le loro forze; i secondi sembra quasi non possano vivere al di fuori di un clima di guerra. Solitamente i primi sono più “gettonati” perché gli attaccabrighe risultano fastidiosi.

L’unica cosa sensata che si può affermare subito è che in entrambe le posizioni esiste un vantaggio, che la persona ne sia consapevole o meno.

Un vantaggio?

Si, esattamente. Tutto quello che cercherò di argomentare da qui in avanti si basa su di un assunto di base (ogni teoria ha bisogno di un punto di partenza per potersi articolare): qualsiasi cosa si faccia o non si faccia, ogni soggetto è “agente”. Anche quando non ne siamo consapevoli, scegliamo tutto ciò che viviamo: siamo tutti costruttori delle nostre vite e ciò che scegliamo deriva da un vantaggio (anche se spesso sembrerebbe non essere così).

Stabilito il punto di riferimento, iniziamo dalla polarità dei compiacenti, gli iper-adattati: che cosa rischiano a dire no? Cosa c’è realmente in ballo? Cosa succede internamente a queste personalità ogni volta che evitano uno scontro? Veramente non si arrabbiano mai?

Le ipotesi sono diverse.

Nel caso peggiore, la persona non avverte proprio il suo personale fastidio. La sua percezione è bloccata sul nascere, non c’è un confine tra la sua persona e l’altro a con il quale si sta relazionando. I meccanismi con i quali la mente opera questa capacità di “astrazione”, di desensibilizzazione, sono diversi. Il risultato rimane che in questi casi non ci troviamo di fronte ad una relazione Io-Tu: i soggetti non sono due ma solamente uno. I compiacenti che non si percepiscono proprio sono completamente spostati sul Tu. Tutto è vissuto in funzione dei bisogni del Tu, e del soddisfacimento di essi. I bisogni dell’Io non vengono percepiti, bensì confusi con i bisogni del Tu. In questo caso il soggetto non si accorge neanche di rinunciare al suo mondo e tutta la relazione con l’altra persona sembra andare benissimo (ad esempio le coppie che non litigano mai).

Quando poi “improvvisamente” la pace esplode, tutti rimangono senza parole.

Cosa è successo?

Proviamo a configurare una storia specifica.

Maria è cresciuta in una famiglia molto severa costruendosi l’idea che se fosse stata buona, ubbidiente, non avesse mai creato problemi avrebbe potuto conquistare l’amore dei suoi genitori. Diventata donna sposa un uomo severo e prepotente con il quale continua a mettere in atto le sue regole dell’infanzia: ubbidire, non dare fastidio, evitare conflitti.

Senza rendersene conto, colleziona all’interno del suo vissuto una serie di frustrazioni dicendosi che è per il bene della coppia e dell’armonia, che è giusto e normale così.

Questo tipo di equilibrio potrebbe anche durare per tutta la vita. Il problema sorge se arriva un evento a disconfermare in modo forte le convinzioni di Maria, ad esempio la scoperta di un tradimento da parte del marito.

Uno dei primi pensieri potrebbe essere: “ma come, io sono stata sempre sottomessa, ho fatto tutto ciò che volevi e così mi ripaghi?”

Delusione, rabbia, paura, dolore, sorpresa, improvvisamente il corpo di Maria sente tutto insieme e la getta nella confusione più totale.

È qualcosa di simile a quando da piccoli ci dicono che Babbo Natale non esiste e che non esiste nessun premio al nostro “essere buoni”.

Maria ha una scelta da compiere: sedersi sulla sedia della vittima e non alzarsi mai più (“povera me, voi non sapete che cosa mi è successo, che cosa ho subito!”) oppure chiedersi in che cosa sia stata co-costruttrice di questo evento.

Attenzione, questo non significa che il marito non abbia la sua parte di responsabilità nella scelta del tradimento!

Il punto è che Maria non può agire su di lui, non può cambiare lui. Può solo guardare a sé stessa e chiedersi se può modificare qualcosa per vivere meglio, per rilanciare la sua esistenza (anche con il marito, certo!).

Una delle ipotesi possibili potrebbe essere che nel momento in cui si sono sposati, a tutti e due piaceva l’idea di avere una relazione genitore/figlio (quando c’è una persona che comanda e una che ubbidisce le posizioni sono queste). Poi nel tempo è “saltata” la sessualità (nella relazione genitore/figlio è facile che si passi ben presto alla possibilità unica della tenerezza) e il primo che ha avvertito la mancanza dell’espressione erotica l’ha cercata fuori dalla coppia.

Torniamo alla domanda iniziale: “litigare è bene o male?”

In questo specifico caso, sarebbe stato un bene incontrare dei momenti di litigio (anche se preferirei chiamarli discussioni) nell’arco della relazione: avrebbero denotato una relazione a due, uno Io-Tu distinti che mantengono il contatto con il proprio sentire e a volte si scontrano. Maria si sarebbe accorta di sentire rabbia quando il marito non le permetteva di prendersi del tempo per sé uscendo con le amiche, si sarebbe espressa con decisione, senza essere aggressiva e forse il marito si sarebbe accorto di avere a che fare con una donna e non con una mamma o con una figlia e forse si sarebbe sentito ancora più attratto da lei.

Certo, è solo un’ipotesi. Ciò che è certo che in questa ipotesi ci saremmo trovati di fronte una persona in contatto con sé stessa, con i propri bisogni e le proprie idee, capace di difendersi nelle situazioni di ingiustizia e di prendere il suo spazio nel mondo.

Passiamo agli oppositivi, quelli che dicono sempre di no e hanno bisogno di svalutare sempre l’altro.

Queste persone spesso percepiscono l’altro come un nemico e preferiscono stare sull’Io e non rischiare di percepire il Tu. Uno dei possibili rischi che percepiscono è quello di perdersi, di non potersi mettere in discussione per la paura di dover fare i conti con il fatto che non sono perfetti (tranquilli, nessuno lo è!). Di conseguenza il vantaggio, spesso inconsapevole, è quello di mantenere intatta la propria percezione di sé, del proprio valore. Solitamente questi caratteri sostengono tesi del tipo “nessuno può capirmi” o anche “se faccio da solo è meglio, gli altri sono tutti incapaci”. Mettersi in una posizione superiore, consente di sentire che vanno bene, si difendono dal rischio di sentirsi fallibili.

Nel mondo quotidiano risultano persone “scomode” e spesso fanno fatica ad avere una rete amicale. Spesso non sono consapevoli di “farsi il vuoto intorno” ed entrano in una spirale di contrasti infiniti. Oppure si circondano di persone deboli, facili da manipolare e sottomettere.

Possono essere stati bambini che hanno imparato la modalità bellicosa di confrontarsi in famiglia, o bambini che hanno trovato questa modalità per non essere travolti da una mamma troppo invadente, o anche bambini che hanno letto uno sguardo compiaciuto negli occhi di un papà sottomesso alla moglie.

Potremmo fare molte altre ipotesi, ma la domanda utile è: questa persona è felice? Quando dice “no” è perché è veramente ciò che pensa? Oppure a volte rinuncia a qualcosa pur di mettersi in contrasto?

Facciamo un esempio specifico.

Marco adora i concerti rock. Marco ha un fratello, Giulio, con il quale non va d’accordo. Per Marco la cosa più importante è potersi distinguere da Giulio che considera un imbranato. Un giorno Giulio gli dice di avere avuto in regalo due biglietti per un concerto rock fantastico gli chiede se vuole andare con lui. Marco gli dice di no, aggredendolo verbalmente per aver pensato che potesse farsi vedere in giro con lui e rischiare così di farsi deridere da tutti.

Marco ha veramente scelto ciò che desiderava?

È anche possibile che Marco consideri un’”ingiustizia” il fatto che dei biglietti per un concerto che aveva fatto il tutto esaurito da mesi siano finiti nelle mani del fratello anziché nelle sue! E questo senso di “ingiustizia” potrebbe spingerlo a rubarglieli di nascosto (azione aggressiva che danneggia Giulio).

In questa storia c’è un’ingiustizia?

La sera del concerto Giulio apre il cassetto per prendere i suoi biglietti e non li trova. Dopo averli cercati per tutta la casa si deve arrendere e rinunciare al concerto. Durante la serata Giulio vede dei selfie di Marco su Instagram: è al concerto con un amico. Si rende conto che i suoi biglietti sono stati trafugati dal fratello. Sente la rabbia salire al collo e il cuore aumentare i battiti.

Che reazione pensate dovrebbe avere Giulio? Che cosa vi aspettate che faccia?

Dipende da che tipo di dialogo interno si attiverà, che cosa Giulio dirà a sé stesso:

  • Meglio che lascio perdere, altrimenti chissà che altra angheria mi propina: tanto vince sempre lui! (Giulio si sente inferiore e teme Marco. Non farà nulla)
  • Ma vedi questa carogna che cosa è stato capace di fare. È senza speranza, appena torna gli rompo la faccia di pugni.
  • Sono un cretino! Lo sapevo che Marco è una carogna e non mi posso distrarre mai: dovevo nascondere i biglietti, anzi dovevo proprio lasciarli tenere al mio amico.
  • Sono veramente arrabbiato. Questa cosa non è giusta. Capisco che anche Marco avesse voglia di andare al concerto e capisco anche che non volesse venire con me. Avrebbe potuto dirmelo e chiedermi se fossi disposto a cedergli i biglietti. Appena torna lo voglio affrontare per a trovare il modo di essere risarcito dal danno.

Quale di questi dialoghi interni secondo voi è quello migliore e perché?

Dal mio punto di vista è l’ultimo perché vede Marco e Giulio in una posizione di parità. Nessuno dei due è un perdente a prescindere. Giulio riesce a vedere che il fratello possa avere desideri simili e accettare che non desideri la sua compagnia. Sente rabbia per l’ingiustizia (vera) subita e decide di canalizzare la sua rabbia facendola diventare assertività: lo affronterà e si farà risarcire in una modalità che sentirà giusta. Non ha bisogno di svalutare il fratello per sentirsi forte delle sue ragioni. Decide semplicemente di tutelare sé stesso senza danneggiare Marco in nessun modo.

Potremmo continuare all’infinito con esempi di mille tipi. In definitiva la risposta univoca è che litigare è un bene nel momento in cui si abiti una posizione di rispetto e parità di potere. Essere in contrasto di vedute è una cosa sana. Cercare di sopraffare l’altro è aggressivo. Non entrare mai in contrasto è codardia o inconsapevolezza dei propri bisogni.

Se si conosce bene la rabbia, se si scopre come funzioniamo, si può canalizzarla facendola diventare il nostro più grande motore, senza danneggiare mai nessuno.

 

 

Il terapeuta? Come il filo d’Arianna!

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Il filo d’Arianna: come uscire dal labirinto del proprio caos.

“Sei incastrato nei meandri del labirinto circondato dai tuoi mostri personali. Il buio ti pietrifica, ti manca l’aria, il cuore accellera senza tregua, ti senti spacciato. Ti guardi intorno nel tentativo di trovare una via d’uscita ma in preda all’angoscia ti perdi sempre di più. Ci vorrebbe una luce. Ci vorrebbe un sentiero già tracciato, un filo da seguire. Ecco che cosa potrebbe spiegare bene “a che cosa serve” uno psicoterapeuta.

Lo scopo di questo articolo è quello di provare a sfatare qualche falso mito, scalfire qualche pregiudizio, ma soprattutto incoraggiare chiunque a ricercare il proprio benessere. Perché siamo nati per gioire, nonostante spesso ci abbiano insegnato diversamente e la ricerca della propria felicità è l’unico dovere a cui dobbiamo rispondere. Perché accettare è molto diverso da rinunciare. Il mio consiglio spassionato è quello di cercare senza tregua le risposte che ci servono, l’aiuto che ci permette di cambiare le cose, ricordando che sempre (o molto spesso) è possibile cambiare le cose e indirizzare la vita dove desideriamo.

Andiamo per gradi e seguiamo il filo di ipotetiche domande.

Quando andare da uno Psicologo o Psicoterapeuta?

Cercare un “orecchio amico” (psicologo, psicoterapeuta, psichiatra) per il proprio disagio è una decisione lenta dato che non si tratta di qualcosa di familiare né di naturale. Spesso si rimanda per mesi o addirittura anni e, il più delle volte si valuta questa possibilità solo quando ormai il convivere con i propri problemi ha iniziato a compromettere in modo significativo la propria esistenza e il sostegno dei familiari e degli amici non riesce più ad alleviare il proprio malessere.
Prendersi cura della propria salute psicologica è parte integrante del prendersi cura della salute fisica: un corpo sano non può esistere se accompagnato da una mente nel caos perché le scelte non saranno sempre funzionali. Superare propri ed altrui pregiudizi, stereotipi sociali, convinzioni errate, vissuti di vergogna, è il primo vero regalo che possiamo fare a noi stessi.

Come capire se si ha bisogno dello psicologo?

Andare dallo Psicologo non implica essere, “matti”, bensì prendersi cura del proprio disagio al quale, in un determinato periodo della propria vita, non si riesce a far fronte, decidendo così di rivolgersi allo specialista competente in materia per attivare un processo di cura e di guarigione.
Propongo una lista “simbolica” di circostanze “tipo” in cui, generalmente, ci si rivolge ad uno psicologo o psicoterapeuta:

  • per trovare/ritrovare una serenità, un equilibrio interiore.
  • per favorire una crescita personale.
  • per delle esigenze di comprensione e/o di orientamento.
  • per raggiungere una maggiore e migliore consapevolezza di sé, degli altri e delle proprie sfere vitali (familiare, sentimentale, sociale, lavorativa, scolastica).
  • per una crisi temporanea.

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  • per risolvere dinamiche e difficoltà affettive, sociali, familiari, relazionali, scolastiche, lavorative,
  • per uscire da situazioni di stallo e/o blocco.
  • quando i sintomi ( ansia, depressione, stress…) aumentano progressivamente di intensità e frequenza, persistendo troppo a lungo nel tempo e incidendo negativamente nella propria vita.
  • in caso di lutti ed eventi traumatici.
  • per liberarsi da impulsi, pensieri, paure, difficoltà, idee e sentimenti negativi (tristezza, idee fataliste sul futuro, paure irrazionali).
  • quando notiamo alterazioni del comportamento (ad esempio sbalzi dell’umore, alterazioni nella nostra condotta che generano problemi o isolamento ingiustificato).
  • quando un problema psicologico tende ad aumentare di intensità e frequenza, invadendo in modo disfunzionale tutte le varie sfere vitali.
  • per rimodulare e migliorare il proprio carattere e la propria personalità.
  • per uscire gradualmente da abusi e dipendenze (relazionali, droghe, alcool, tabacco, cibo, sesso).
  • ….per scoprire che non era poi così impossibile imparare ad essere felice!

Come fa lo psicologo ad essere d’aiuto?

  • Crea uno spazio diverso da quelli soliti della vita quotidiana, in cui confidarsi e confrontarsi ritrovando punti di riferimento e risposte,
  • Accompagna la persona nel suo disagio interno fino alla sua attenuazione e/o scomparsa.
  • Aiutando a comprendere, riattivare e rinsaldare le proprie energie e capacità, soluzioni e motivazioni interne, permettendo in tal modo il superamento di blocchi ed ostacoli psichici,
  • Fornendo le necessarie informazioni in merito al problema.

Premesso che l’intervento psicologico o psicoterapico si fondano sulla reciproca collaborazione attiva di professionista e cliente, su un “contratto di lavoro” con precisi obiettivi e su una specifica relazione di fiducia reciproca, empatica, disponibile e accogliente, solo in itinere è possibile fare una valutazione dell’efficacia del percorso.

Quali sono gli elementi da poter valutare?

  • la qualità della relazione. Ci si deve sentire a proprio agio nel raccontarsi, nell’esprimere il proprio disagio e i propri pensieri, sentire di potersi affidare;
  • il tempo: una terapia “rapida” o “lunga” non sono necessariamente garanzia di efficacia e di raggiungimento del proprio benessere. Ciò che, invece, è consigliabile è partire da un’attenta analisi del bisogno e formulazione di piccoli obiettivi raggiungibili e realistici all’interno di un arco temporale definito e concordato insieme. Raggiunto quel momento fare “il punto della situazione” in modo onesto e condiviso, eventualmente rivalutando un ulteriore periodo di approfondimento, analisi, elaborazione a seconda delle esigenze attuali; sentirsi parte integrante del progetto che riguarda la propria vita;
  • il termine del percorso: la persona che chiede aiuto deve sempre sentirsi libera di concluderlo quando vuole. A prescindere dagli obiettivi concordati insieme, non sarà mai il terapeuta a stabilire il termine; è suo compito aiutare a vedere dove il percorso si ferma, cosa si è risolto e cosa si lascia in sospeso, ma la bandierina “Fine” la metterà sempre la persona che ha richiesto aiuto, perché solo lei/lui sa quando e quanto si sente soddisfatto.

Come spiegare ai propri familiari la necessità di rivolgersi ad uno psicologo?

Fermo restando che non è un obbligo imprescindibile, quando il desiderio di essere trasparenti in famiglia è forte, la strada è quella della complicità. Condividere il desiderio di stare bene, di migliorare il proprio benessere e spiegare ai propri familiari che è importante il loro sostegno per poter affrontare il percorso serenamente, è sicuramente la strada giusta.

Spesso si è abitati dalla condizione di “perdere” una persona che va in terapia: “cambierà e non mi vorrà più bene come prima”, “scoprirà dei difetti nel nostro rapporto e poi come farò?”… Questi e tanti altri quesiti abitano le persone che stanno fuori dal labirinto e non viaggiano con noi.

Accogliere le loro paure e difendere il proprio spazio scelto è ciò che suggerisco.

Cosa lo Psicoterapeuta NON è: 

  • Non è un mago: non ha la palla di cristallo e non conosce nessuna verità nascosta.
  • Non è un dispensatore di consigli: solo tu sai cosa è veramente bene per te! Il terapeuta ha solo il compito di aiutarti a scoprirlo.
  • Non è una mamma e non si sostituisce nelle decisioni.

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…afferra il tuo filo ed esci dal labirinto!

 

Cosa pensare? Cosa fare?

In una situazione critica la nostra mente reagisce con schemi automatici. E’ programmata proprio così. Per andare in modalità automatica, un comportamento (ma anche un modo di pensare) necessita di ripetitività e rinforzo.pensieroso-articolo

Il problema è che non sempre gli automatismi conducono a reazioni efficaci e soprattutto che, in quanto tali, non consentono al nostro cervello di elaborare risposte creative che potrebbero rivelarsi più fruttuose.

Prendiamo un esempio a caso, tra le situazioni che maggiormente mi capita di sostenere.

  –    Luca ha perso il lavoro: è la quarta volta in due anni. Ha una famiglia sulle spalle e dei genitori in vita molto giudicanti. Fin da piccolo si è abituato ad essere forte e a nascondere le sue paure perché quando piangeva veniva rimproverato di lamentarsi fuori luogo e invitato a non dare fastidio. Negli anni ha rinforzato dentro di sé il pensiero che non deve mostrarsi mai debole, altrimenti perderà l’affetto e la stima di chi ama.

Se nel suo modo di relazionarsi in ambito lavorativo c’è un intoppo non lo scoprirà mai perché non chiede aiuto e non si confronta. Probabilmente continuerà a collezionare fallimenti e la sua autostima continuerà a indebolirsi.

  –      Luca è stato lasciato per l’ennesima volta dalla sua compagna: è la quinta relazione che fallisce. E’ cresciuto in una famiglia in cui si ritiene che il mondo sia ingiusto e che “gli altri non capiscono quasi mai”. Nella vita ha rinforzato la sua posizione esistenziale di “vittima”. Forse a volte lo è anche stato, ma il punto è che se non osserverà mai in modo creativo ciò che può generare lui nella sua compagna, con il suo atteggiamento, con i suoi pensieri, con le sue convinzioni, probabilmente sarà destinato a rimanere solo.

In tutta la nostra esistenza, senza rendercene conto, accumuliamo un reiterarsi di atteggiamenti sterili solo perché automatici.

Che fare?

Un primo passo è quello di ricordarsi di spezzare l’automatismo. Andare controcorrente, fare qualcosa di diverso, di nuovo!

Un’altra buona fonte di ispirazione può venire dall’osservazione imparziale di un buon amico: chiedere a chi ci circonda “che cosa pensi di me?” chiedendo di essere trasparenti e veri, può aiutare a vedere lati di noi che possono essere variati in una direzione più funzionale. Per quanto una “critica” faccia sempre male, meglio che arrivi su richiesta e da parte di un amico, piuttosto che sotto forma di abbandono/perdita inconsapevole!

Continuando, un grande trucco è quello di non pensare mai di essere l’unica vittima: qualsiasi guerra necessita di due antagonisti. Mai prendersi tutta la ragione e mai prendersi tutta la colpa. Cercare sempre la propria percentuale di responsabilità nell’evento: anche se minima, è l’unica percentuale sulla quale abbiamo potere di cambiamento!

Ricordare che sempre c’è la possibilità di migliorare la propria condizione, ci aiuta a cercare aiuto e a non fermarci mai finché non lo si è trovato. La cosa più importante è non darsi mai per vinti, e pensare che nessuno può farcela da solo: avremo sempre bisogno di una mano nei momenti più difficili e questo non è sintomo di debolezza, ma anzi di grande coraggio e di grande amore per se stessi.

Pensa creativo!

Perdere il sogno

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In “Lutto e melanconia” (1917, Metapsicologia) Freud rileva come a volte una persona può essere “consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando, ma non sa cosa è andato perduto in lui”[1]

Non voglio addentrarmi in disquisizioni tecniche o esercizi di stile, ma solo proporre delle riflessioni circa il “cosiddetto” lavoro del lutto.

Quando una persona perde un affetto importante ci sembra normale che soffra e ci si attende che in un tempo più o meno breve questo stato di prostrazione rientri.

Non ha importanza se la perdita sia oggettiva (conseguente alla morte fisica) o abbandonica (un marito che lascia, un amico che si trasferisce in un’altra città…), ormai nel pensiero collettivo ci si può intendere bene parlando genericamente di “lutto” e di un tempo congruo affinché lasci nuovamente spazio al sorriso e alla gioia di vivere la propria vita.

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Probabilmente a molti è capitato almeno una volta di vivere un lutto e di sentirsi incompreso: dopo qualche mese, al massimo un anno è successo di essere giudicati dalle persone che condividono la nostra vita perché “siamo ancora fermi al dolore, …ancora pensiamo a questo evento…”.

In questo caso, oltre al dolore si aggiunge un senso d’inadeguatezza.

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Che cosa succede quando la perdita non viene elaborata? Che cosa blocca la possibilità di riprendere il proprio cammino e recuperare l’armonia interna?

A mio avviso questo accade quando ciò che si perde non è mai esistito. Cioè s’inizia a fare i conti con il fatto che ciò che si è perduto è un’idea personale, una costruzione fantastica della persona perduta o della qualità della relazione con lei.

Facciamo un esempio.

Nel corso della vita ho sempre descritto il mio rapporto con mia sorella come un rapporto meraviglioso e appagante. Le tensioni con i genitori sono sempre state compensate dalla gioia di avere “almeno un rapporto speciale di fiducia incondizionata.” I genitori muoiono, gli equilibri saltano ed emergono realtà terribili. (quante famiglie devastate conoscete che in situazioni di eredità sono completamente esplose?)

Improvvisamente quel rapporto meraviglioso non c’è più. Si soffre, ci si arrabbia, non si capisce bene che cosa sia successo e non si riesce a uscire dalla trappola.

Ecco.

In questo caso ciò che si è perso è l’illusione. Il proprio “castello di carta.”

L’idea di avere un rapporto di un certo tipo, un ruolo nella vita di alcuni cari, una dimensione affettiva che in realtà non c’era.

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Qui si aggiunge un sentimento di fallimento o di tradimento. Le domande che si aprono possono essere: “come ho fatto a pensare che andasse tutto bene? Come ho fatto a non vedere? …”, “com’è possibile che proprio lei/lui mi tradisca? Da lui/lei non me lo sarei mai aspettato!”.

Perché non abbiamo visto o perché abbiamo costruito un castello di carta nella nostra mente?

Perché spesso la realtà è troppo dura da accettare e cerchiamo, inconsapevolmente, di migliorarla in modo che possa essere pensabile.

Una madre fredda, rifiutante, aggressiva, non affidabile è una realtà insopportabile. Così o la facciamo diventare un’Atena irraggiungibile, o cerchiamo degli alleati nel sistema che possano alleggerire il triste destino.

Un compagno/a infedele visto/a come affidabile e amorevole, un amico/a percepito/a come un solido punto di riferimento, sono a volte tutte proiezioni di un bisogno profondo di colmare un vuoto affettivo.

Per la prima parte della nostra vita, questo “mascheramento” può funzionare proteggendoci dal dolore devastante di non aver avuto il nostro spazio di affidabilità incondizionata. Poi arriva il momento in cui il castello illusorio crolla e il lutto da elaborare è molto più difficile della perdita fisica di una persona con cui si è avuto un rapporto affettivo vero.

Perché ciò da cui ci dobbiamo separare è la speranza che ci possa essere finalmente giustizia, un “riscatto”, un “recupero” di questa mancanza così dolorosa.

Vedere la realtà, è il primo passaggio complicato. Accettarla può diventare impossibile.

Se si sceglie di coltivare la rabbia, il rancore, sentendoci vittime si alimenta l’ancoraggio al sogno e in questo modo non può esserci nessuna elaborazione del lutto.

Rimaniamo sotto scacco. Bloccati nella nostra vita.

Cosa si può fare?

L’accettazione implica il perdono: ognuno è come può.

Il secondo passaggio è iniziare a guardare cosa c’è, uscendo dal circolo vizioso dell’osservazione della mancanza: si scopre sempre tanto di cui potersi riempire il cuore.

E’ andata com’è andata. Rimanere bloccati nel passato non ci permette di vivere la vita reale e presente.

Come aiutare un amico/a che vive questo tipo di perdita?

Sospendendo il giudizio e facendo sentire quanto amore c’è nella vostra relazione vera.

L’amore è l’unica cosa che cura!

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[1] S.Freud, Metapsicologia, Bollati Boringhieri, 2002, p.128.

Avere il coraggio di essere se stessi

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Se un individuo sperimenta pesanti disordini durante la sua educazione, può succedere di nascondere agli altri il proprio “Io” per paura di non essere accettato. Ma può anche capitare che quello stesso individuo non sappia davvero chi è. Una buona conoscenza di sé facilita le relazioni con gli altri e migliora l’autostima.

Negli anni sessanta due ricercatori (Joseph e Harry) hanno proposto un modello che hanno chiamato “Finestra di Johari“, che dovrebbe descrivere il modo in cui evolve la comunicazione interpersonale. In realtà può essere altrettanto utile per esaminare le modalità di evoluzione dell’autostima.

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Quando sviluppiamo l’autostima, aumentiamo la nostra apertura a livello del quadrante la facciata” perché accresciamo la fiducia in noi stessi e negli altri. Il punto cieco si riduce perché l’apertura agli altri e alle loro opinioni accresce la conoscenza che abbiamo di noi stessi. Analogamente può ridursi anche “L’ignoto” perché l’inconscio trova i mezzi per esprimersi.

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Consultare chi avete intorno può diventare il vostro più grande tesoro: solo partendo dalla conoscenza di ciò che si suscita nell’altro, si può decidere se è il caso di operare qualche cambiamento. Come una caccia al tesoro tutti i nostri amici diventano compagni di viaggio e di scoperta.

Buon divertimento!

Le tavole di Rorschach come strumento terapeutico in un caso di Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità

A novembre ho avuto la possibilità di esporre un caso clinico al Convegno Internazionale Rorschachcaso grazie al quale ho mostrato l’efficacia dell’utilizzo di questo strumento non solo come strumento diagnostico, ma anche come strumento terapeutico in ottica gestaltica.  I colleghi del CIFRIC di Napoli mi hanno ospitato sulle loro pagine e qui sotto potete trovare il video completo dell’intervento.