Fare Spazio…come costruire relazioni piacevoli

Fare spazio.

Cosa significa?

Nei miei ricordi, “fare spazio” è associato a qualcosa di scomodo, fastidioso, noioso.      
Mi sentivo chiedere spesso di “fare spazio”: togli i tuoi giocattoli, dobbiamo cenare; sposta le tue bambole, la tata deve stirare; stringi le foto, sennò non entrano tutte nella pagina.       
Insomma, ragionando in termini di “significato/significante (come direbbe De Saussure), la frase “fai spazio” è legata spesso a qualcosa di negativo.

Forse è proprio qui il problema!

Già, perché se si desidera avere “qualcuno” nella propria vita, fare spazio è imprescindibile. E non è un’attitudine innata, è qualcosa che si costruisce, che si deve coltivare, nutrire, curare.

Ancora una volta sta arrivando il Natale: croce e delizia di ognuno di noi.             
Molte sono le famiglie, i nuclei lontani, anche se non troppo lontani, e quando arriva il Natale, già dai primi giorni di novembre, si inizia a delineare la trama della possibile “tragedia”.            

Dai miei o dai tuoi? Tu dai tuoi e io dai miei? Il 24 dai tuoi e il 25 dai miei? E santo Stefano? Eh, ma io ho due “Stefani” in famiglia, tu solo uno!…           
Giorni di dibattiti, di lotte intestine ad accaparrarsi la parte più lunga di una coperta che sarà sempre troppo corta, perché qualsiasi sia il verdetto finale, il problema resta “fare spazio”!

Si, perché il vero focus della cosa è la capacità (o meglio dire la volontà) di fare spazio. Fuori, ma soprattutto dentro!

Mi spiego meglio.

Abbiamo deciso per il 24 tutti da noi: i miei e i tuoi. Si fermano anche a dormire perché si farà troppo tardi e la nonna, povera, ha già 87 anni. 
Dove li facciamo dormire?          
Quale bagno devono usare?      
No, non esiste, io il mio letto non lo cedo: non fa niente che il letto della camera degli ospiti non è tropo comodo, tanto se ne devono andare domani!  
Nel bagno grande ci sono tutte le mie cose, li mettiamo in quello piccolo, però non ho voglia di togliere tutte le scope dalla doccia: tanto mica si dovranno fare la doccia, si fermano solo una notte! Se la fanno a casa.

Prepariamo la stanza, tra libri, scatole, vestiti, scarpe, pc, casse, valigie, stendino… Va benissimo così. Ci arrangiamo tutti.

Magari vedo anche la meraviglia della stanza preparata e mi faccio anche i complimenti per essere stat@ così ospitale.

Il frigo è pieno: latte, yogurt, uova, carne, pesce, vino bianco, acqua gassata, burro, pancetta…, non fa nulla che mi sono dimenticat@ che loro sono vegani e la nonna ha il colesterolo da tenere sotto controllo.

Spazio.

Ho dello spazio per qualcosa che vada oltre me?
Ho desiderio di svuotarmi un poco di me per poter accogliere te?

Si, perché per potersi incontrare veramente, abbracciare, toccare (soprattutto nel cuore) serve svuotare l’EGO. Rinunciare per un tempo, ad essere abitat@ completamente da me e dalle mie abitudini; magari raccontandomi anche che sono le migliori abitudini del mondo, così che tutti si potranno trovare bene ad essere inseriti nelle mie!

Ecco, credo che il problema principale del Natale sia questo. La difficoltà a fare spazio per accogliere. Chiedersi se siamo veramente disponibili.

Togliere i miei vestiti da un’anta dell’armadio per fare spazio ai tuoi vestiti, togliere le mie cose dal bagno per far spazio alle tue, chiedermi che cosa ti fa piacere mangiare per il piacere di vivere per due giorni il tuo mondo, o anche solo vederlo attraverso i tuoi occhi.

Essere destabilizzati e portati fuori dalla zona di confort.

Se stare insieme a Natale non significa questo (fare un viaggio all’interno del mondo dell’Altro), quelle ore condivise possono solo risultare pesanti, formali, irritanti…, tanto da iniziare il conto alla rovescia solo dopo due ore.

È un po’ come avere un figlio: se non mi svuoto di me, come accolgo te?

A questo punto credo che alcuni di voi stiano gongolando nel pensare “io non sono così, io sono bravissim@ nell’arte dell’accogliere!”

Mi ricordo tutto quello che piace e non piace, cedo la mia camera da letto per fare spazio a loro, ho già fatto la spesa per tutti e 15 giorni che saranno qui e anche preparato una lista di cose meravigliose da fare insieme…

Il punto è che lo spazio da fare è prima di tutto dentro di noi. La disponibilità di cui sopra, necessita di rispetto, tempo e pazienza. Permettere all’altro di avere il tempo di sentire che cosa desidera, avere il tempo e la possibilità di potermelo chiedere senza sentirsi in obbligo di accogliere e gioire di tutte le cose che posso aver anticipato già.

Fritz Perls ha parlato di “vuoto fertile”, l’arte profonda e rarissima di chi sa farsi vuoto per aspettare di poter accogliere ciò che arriverà. Senza aspettative, senza pretese.

Un po’ come stare fermi a braccia aperte, pronti ad accogliere qualsiasi cosa arriverà, solo per la gioia del fatto che sta arrivando qualcosa. Anche un rifiuto!

Si, anche un rifiuto. Perché se una persona che amo e che mi ama si sente libera di dire “no”, significa che si sente libera di poterlo fare. E questo è veramente un gran bel segnale d’Amore.

La chiave perciò, potrebbe essere concentrarsi sulla novità, sulla sorpresa, su cosa porta nella mia vita la presenza di altri per qualche tempo. Rimanere aperti e fluttuanti, come fare un viaggio esotico! Pronti a gioire di qualsiasi cosa, ricordandoci che la vita non è eterna e dare amore e libertà è nutriente soprattutto per chi dona.

…e se non è così, meglio lasciar perdere: sappiamo già che sarà solo una tortura per tutti.

Auguro a tutti noi un meraviglioso vuoto fertile di preparazione per il Natale che sta arrivando.

Relazioni a tempo

Accolgo ogni giorno racconti di dinamiche relazionali condite da tristezza, rancore, rabbia, paura. Ascolto con pazienza, empatia, accoglienza. Eppure dopo pochi minuti dentro di me parte come un ticchettio: è il conto alla rovescia della fine della relazione. No, non ho nessuna capacità di chiaroveggenza! Ho solo imparato a riconoscere i segnali inequivocabili del “gioco al massacro”.

In un’era dove l’onnipotenza ha superato la fantascienza, dove l’idea di poter gestire, controllare, prevedere è diventata una certezza, la possibilità di costituire delle relazioni “sane” perde sempre di più terreno.

Specifichiamo: per relazione sana non intendo una relazione in cui non si litiga! Per relazione sana intendo l’incontro di due persone consapevoli del funzionamento soggettivo che nell’incontro con l’Altro tengono libertà e rispetto al centro della costruzione. Relazioni in cui la differenza di pensiero possa suscitare curiosità e non giudizio e svalutazione; relazioni in cui l’accettazione intrinseca del rischio, possa non scatenare dinamiche ti possesso, manipolazione dell’Altro per tenerlo a sé. Relazioni in cui ogni soggetto è consapevole dei confini e della differenza tra desiderio e bisogno. Relazioni che non chiudono bensì aprono alla vita, alla crescita, all’evoluzione di ognuno dei soggetti.

Di questi tempi il tema della “dipendenza affettiva” va decisamente per la maggiore. In ambito psicologico, sociologico, antropologico, coaching, prima o poi ci si imbatte in un articolo sul tema. Più o meno i concetti sono sempre gli stessi e ogni professionista cerca di esprimerlo a modo suo. Con questo libro, Relazioni tossiche (qui puoi acquistarlo su Amazon), più che parlare della dipendenza affettiva, cerco di descrivere alcune delle dinamiche più frequenti che si possono mettere in piedi e che, nel tempo, portano esattamente all’opposto di ciò che si desidera: allontanamento e non avvicinamento. Cercando aiuto anche nella letteratura, provo a descrivere delle modalità precise che conducono alla certezza della rottura.

Non è un testo tecnico e forse potrà risultare anche un pò ripetitivo perché alcuni passaggi li ho ripetuti in modalità leggermente differenti nel desiderio di riuscire a spiegarmi bene. Il linguaggio tecnico è ridotto all’osso: utilizzo i riferimenti alla letteratura di Eric Berne con il suo GAB (Genitore, Adulto, Bambino) perché trovo geniale l’idea che l’essere umano sia un condominio e che ogni volta che pensiamo siamo ad una riunione di condominio con i tipici litigi del caso. Tutto nella nostra testa.

Con questo assunto di base, ogni volta che due persone si incontrano (iniziando un qualsiasi tipo di relazione) in realtà si stanno incontrando 16 persone diverse: ognuno porta in sé un Genitore Normativo Positivo, un Genitore Normativo Negativo, un Genitore Affettivo Positivo, un Genitore Affettivo Negativo, un Adulto, un Bambino Libero, un Bambino Adattato e un Bambino Ribelle = otto persone diverse. Ognuna di queste parti ha differenti motivazioni per esprimersi e diventarne consapevoli può aiutarci a comprendere che tipo di relazione stiamo realmente costruendo. Ad esempio, se mi pongo sempre come Bambino Adattato, non mi stupirò di essere trattato come una persona passiva e senza spirito di iniziativa.

Si, perché non c’è una regola fissa nel comportamento che possiamo decidere di adottare, ma una RESPONSABILITA‘. Cioè, posso decidere di andare nel mondo come Bambino Adattato perché da qualche parte mi fa comodo, l’importante è che ne conosco le derive e le accetto senza poi lamentarmi delle conseguenze dirette. La felicità deriva dallo scegliere consapevolmente come si vuole vivere e dalla possibilità di accettare il fatto che non si può piacere a tutti.

Scrivere questo testo ha risposto al desiderio personale di poter essere utile in questo processo.

Buona lettura

Puoi acquistare il libro su Amazon, lo trovi qui.

Un giorno in seduta con Claudia Giampieri

un esempio di utilizzo delle tavole Rorschach durante una seduta

 

Cosa aspettarsi da un incontro di psicoterapia? Cosa aspettarsi da un terapeuta?

Gli incontri con me sono molto variegati perché la mia formazione integrata mi consente di spaziare tra varie tecniche a seconda di ciò che sento mi possa essere utile per aiutare una persona. Spesso mi sono accorta di essere percepita “meno terrificante” dell’immaginario. Questa cosa mi ha spinta a organizzare delle simulate di terapia, svolte con l’auto di attori professionisti, per mostrare come potrebbe essere un incontro con me.

Al mio canale you tube potrete vederne il primo esempio.

Buona visione

IstantiDistinti

istanti distinti Claudia Giampieri

Istanti distinti

Il tempo è una dimensione ipotetica atta a misurare il trascorrere degli eventi. Da sempre il costrutto è oggetto di riflessioni sia filosofiche che scientifiche.
Desidero posizionarmi nell’ambito psicologico per formulare alcune riflessioni in merito.

“L’autorealizzazione è possibile solo se la consapevolezza del tempo e dello spazio penetra ogni angolo della nostra esistenza; fondamentalmente essa è il senso dell’identità, l’apprezzamento della realtà del presente” (F. Perls, L’io la fame l’aggressività)[1]

Uno dei concetti cardine della Psicoterapia della Gestalt è il radicamento nel qui ed ora ottenuto grazie alla chiusura delle situazioni inconcluse (chiusura delle forme).
Se non subiamo interferenze per situazioni irrisolte, disponiamo di tutte le nostre energie per entrare autenticamente in contatto con l’ambiente in cui ci troviamo ed essere perfettamente funzionali rispetto al ciclo di contatto soggettivo.
In definitiva, il tempo presente non è altro che un ciclo continuo di Istanti nei quali dover entrare in contatto con le sensazioni che emergono dal nostro interno per poter rispondere ad esse in modo funzionale.
Quando questo processo è in atto tra due persone differenti che comunicano, si ha l’incontro di due distinti cicli di contatto. Quando questi due distinti cicli sono in reale contatto nel proprio istante, può avvenire un incontro realmente autentico e intimo dal quale può scaturire una crescita evolutiva in cui ognuno dei due soggetti è di ispirazione all’altro.
Quanto descritto potrebbe essere considerato un incontro “ideale” nel senso di privo di contrasto interno ed esterno. In definitiva il punto in cui poter indirizzare un progetto di psicoterapia.
Istanti distinti è infatti la definizione che ho scelto per il mio lavoro riflettendo sulle parole che potessero racchiudere in estrema sintesi ciò che cerco di fare nei viaggi con le persone che mi chiedono aiuto.

Cosa accade quando non si vive pienamente nel presente e in relazioni caratterizzate da simbiosi, proiezioni, bisogni?
Quando il tempo è percepito come infinito o dilatato e non come una catena di istanti, si possono lasciare forme aperte, situazioni sospese, progetti inconclusi, decisioni procrastinate all’infinito, senza accorgersi che questa condizione genera una tensione profondissima che si trasforma prima in ansia e successivamente in angoscia.
Umberto Galimberti sottolinea come sia fondamentale realizzarci come individui unici, ognuno con la propria specificità, puntualizzando come una vita figlia del nostro demone[2] non ha prezzo e diventa come un progetto andato a buon fine. Ha un retrogusto inconfondibile e lascia un buon sapore in bocca. Una vita sprecata è un insulto alla ragione.
Poi c’è l’altro punto, la possibilità di essere distinti, avere dei confini netti, un’individualità che percepisce i propri desideri senza esserne schiacciata come se fossero bisogni, che può mettersi in relazione con l’esterno libera dalla spinta predatoria di possedere, controllare, inglobare l’Altro da sé.
Se lavorare sul tempo, sulla percezione del qui ed ora investito di gioia e benessere può ancora risultare non troppo ostico (certo esistono individui che non accettano proprio di essere mortali, ma non sono poi così numerosi), altra difficoltà è accogliere l’importanza del confine dall’altro, il valore dell’essere distinti.
Nel tempo della mia professione clinica ho verificato quanto sia difficile accettare di non abitare più l’utero di nostra madre o di ricercarlo strenuamente se si percepisce di non averlo abitato abbastanza. Anche coloro che si professano ribelli per reazione all’ invasione di una madre (ma anche da un padre) eccessivamente simbiotica e richiedente, in realtà hanno concorso alla costruzione di un rapporto fusionale.
Ogni volta che non accetto un “no” come risposta, ogni volta che cerco una forma di rassicurazione dell’amore dell’Altro, ogni volta che proietto il mio sentire, il mio pensare sull’Altro, ogni volta che anticipo una richiesta, che saturo ogni spazio mentale o affettivo, sto disperatamente cercando di ri-costituire l’habitat uterino: quel luogo così caro privo di tensioni e responsabilità, dove tutto esiste senza chiedere…
Com’è forte la tentazione di rimanere infanti e deresponsabilizzati!
Eppure qui dimora la maggior quantità di malessere, di energia tossica, di carburante per la formazione di sintomi.
La separazione genera un’illusione di angoscia perché non si guarda bene il prezzo che già si sta pagando nel dimorare ancora nella dimensione dell’indifferenziazione. Siamo disposti a convivere ancora con l’oppressione, con il fastidio generato dal controllo, pur di conservare la fantasia che quella sia l’unica forma possibile di ricevere amore.
Il paradosso della formazione psichica di un individuo, a mio avviso, sta nel dover costituire un Ego funzionale alla separazione dall’Altro, al processo di individuazione, per poi doverlo distruggere in quanto origine di tutte le ferite psicologiche. Una fatica immane.
Per questo molto spesso si pensa sia più semplice rimanere nella cosiddetta “zona di confort”.
Ciò che non ci è chiaro è che rimanendo nell’utero (la zona di confort non è altro che questo) in realtà non stiamo vivendo, ma solo sopravvivendo in attesa della morte.
Distinguersi dai propri genitori, darsi il permesso di essere perfettamente in contatto con ciò che si sente, liberarsi di richieste ataviche e di divieti insulsi, per poter vivere lo stesso processo che si osserva nella trasformazione di un bruco in farfalla. Da questo anche la scelta di questa immagine.

Da queste riflessioni nasce la scelta del logo dello Studio di Psicoterapia Claudia Giampieri: un oggetto che racchiude in estrema sintesi tutto ciò che cerco di promuovere nei miei incontri con chi mi chiede aiuto, che possa richiamare l’idea del progetto di ricostruzione di una personalità maggiormente equilibrata e centrata sulla propria autonomia psicoaffettiva.
Istanti distinti è un luogo dove si promuove la consapevolezza del tempo reale fatto di continue catene di singoli attimi presenti per poi proseguire alla costruzione di un’individualità auto-definita e separata dalla famiglia di origine.
Scoprire come poter progettare la propria esistenza in massima libertà di espressione, potendola orientare alla chiusura dei progetti, alla capacità di portarli a termine.
I colori scelti per l’immagine richiamano la compresenza di colore e buio, di luce e ombra che così bene ci caratterizzano in ogni istante.

 

D.ssa Claudia Giampieri

Psicologa Clinica, Psicoterapeuta, esperta Psicodiagnosta

Docente CIFRIC, collaboratrice iGAT, socia AIR

C.F. GMPCLD64A46A271M

P.I. 08879461211

Ord. psicologi Campania sez.A n°4920

Sedi:

Via Tasso, 91   Napoli

Via Cesare Balbo, 43   Roma

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mobile: 335.6138269

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L’opera di Fritz Perls si sviluppa negli Stati Uniti a partire dagli anni ’50 andando a creare il modello di riferimento  della terapia della Gestalt, non solo come approccio alla Psicoterapia, ma anche come stile di vita. Il punto cardine nel concetto di consapevolezza implica una componente non solo intellettiva, ma anche immaginale, emozionale e sensopercettiva. Noi siamo noi stessi in ogni gesto, in ogni azione e anche in ogni menzogna e in ogni interruzione autoimposta. Nel concetto esposto da Perls, l’importante è acquisirne consapevolezza, appropriarci responsabilmente di chi siamo e di cosa facciamo.

[2] Aristotele definisce la felicità come autorealizzazione di sé stessi: ogni uomo è fornito di una vocazione, di un’inclinazione che Aristotele chiama daimon. In greco la felicità è eudaimonia “la buona realizzazione del tuo demone”.

L’angoscia del “fermo-tempo”

Cosa ci accade quando siamo costretti a fermarci?  Quando non possiamo mantenere il ritmo frenetico che cadenza il nostro tempo? Quando non possiamo più scappare da noi stessi?

Da bambina ricordo settimane intere trascorse nell’isolamento forzato imposto da nevicate che bloccavano tutto per giorni: la sensazione era quasi da “post guerra”. Nessun contatto se non quello dei miei familiari e al massimo qualche telefonata alle amichette. Poi ci sono state le epidemie di pidocchi, il terremoto, l’Austerity e mille altre condizioni che portavano alla chiusura delle scuole e all’isolamento. Credo di aver passato la mia infanzia più a casa che a scuola, almeno fino alle elementari.

Dopo qualche attimo di disorientamento e di frustrazione, salivo in soffitta, il mio luogo magico.

Perdermi nei miei sogni segreti tra carabattole antiche di ogni genere permetteva a quel tempo immobile di trasformarsi in un viaggio fantastico. La soffitta era il mio “armadio di Narnia”: poteva accadere di tutto.

Oggi mi accorgo di essere sempre stata una privilegiata: in questi giorni difficili dettati dall’emergenza del corona virus, scopro di non aver perso quella capacità di gettarmi con gioia nel mio personalissimo mondo interiore. Di potermi adattare all’isolamento, di poter godere della mia coppia e del clima che ho costruito nella mia casa. Di poter rinunciare anche a mangiare le cose che amo di più perché sono finite in dispensa e scoprire che qualche chilo in più mi consentirà di sopravvivere molto (molto!!!) a lungo. Finché c’è acqua in casa e una sana scorta di farine, non c’è problema.

Non ho più una soffitta (purtroppo) ma ho i libri, la scrittura, le mie cartelle di foto sempre in attesa di essere organizzate, le piante del terrazzo, il pane da poter preparare…ma soprattutto il mio istintivo allenamento alla capacità di auto-intrattenermi, di adattarmi, di “non dare fastidio”.

I problemi insorgono se non ci siamo allenati a stare con noi stessi e se non lo abbiamo insegnato ai nostri figli. Le famiglie in difficoltà, in questi giorni, sentono il peso di intrattenere i bimbi, la difficoltà a stare nel nido con il/la proprio/a compagno/a, l’angoscia di non produrre denaro…

La costrizione alla condizione di “quarantena” (che poi quarantena non è perché nella democrazia non si può imporre di chiudersi in casa) ci sta dando una grande occasione: guardare bene la nostra vita, dentro e fuori al nostro cuore. Poter sentire se ciò che ci siamo costruiti è ciò che amiamo veramente e soprattutto se siamo capaci di ritornare a sentire il nostro singolo respiro.

In definitiva può essere trasformato in una sorta di ritiro meditativo in cui esercitiamo la capacità di stare nell’assenza del “rumore” della vita, in cui possiamo passare del tempo con i nostri bambini, in cui possiamo raccontare e spiegare l’impermanenza della vita, la sua pericolosità il suo non essere solo “bella, divertente, scontata”. Esercitare l’arte della pazienza e dell’attesa, come i pescatori in tempi magri.

Tra i tanti pensieri saggi e profondi che mi tornano alla mente, oggi c’è quello di uno dei miei Professori più amati, Umberto Galimberti:  “In occidente sembriamo esserci dimenticati che non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”.

Il punto cruciale di queste, tutto sommato, rare condizioni di vita è che sono da osservare come un costrutto complesso, che si dipana su più fronti, che ha almeno tre focus differenti: la gestione sociale della cosa, l’aspetto economico e la dimensione personale.

E’ ovvio che in tempi di democrazia non si possa immaginare di ricevere ordini restrittivi in toto, e al contempo è anche abbastanza folle vedere come si desideri negare lo spessore del problema.

Io non sono un’autorità e ho solo deciso di esprimere il mio pensiero nella speranza di poter ispirare qualcuno tra le persone che mi leggeranno.

Spero di potervi ispirare soprattutto nel recuperare “L’Ars moriendi” perché nascita, malattia, vecchiaia e morte sono tutte parti equanimi della vita che sicuramente non è solo un inesorabile e triste destino, né tanto meno una giostra inesauribile di leggerezza.

Imparare a fluire tra il dentro e il fuori, tra la velocità e la lentezza, tra l’opulenza e la ristrettezza ci consente di imparare bene che non possiamo controllare nulla mentre impariamo a rispettare l’Altro e il suo spazio vitale, ad abitare l’angoscia provocata dal “non definito” trovando delle soluzioni “finite” che ci consentano di costruire saggezza.

Detto ciò, spero che potremo presto tornare a toni più leggeri e nel mentre…

Buon viaggio verso la vostra Narnia!

 

 

Il dolore nell’approccio gestaltico: istruzioni per l’uso

Prima di cercare la guarigione di qualcuno chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo fanno ammalare. (Ippocrate)  

Ippocrate aveva capito tutto. Non si può aiutare nessuno che non voglia davvero essere aiutato.

Inizierò con il racconto di una seduta molto interessante.

  1. arriva affranto raccontandomi di essersi bruciato un polso in maniera molto seria. Noto subito che ha la pelle classica da “bruciatura da ferro” e che sopra (esattamente sulla bruciatura!) ha indossato il suo orologio da polso. Continuo ad ascoltare tutto il suo sfogo che rimane incentrato sul senso di inadeguatezza, di frustrazione, di vittimismo, senza nessun tipo di reazione emotiva. A un certo punto M. dice: ”capitano tutte a me perché mi merito una punizione, perché non sono perfetto e forte come dovrei!”
    Qui intervengo chiedendogli come mai ha indossato l’orologio. Lui stupito mi chiede che cosa c’entri la mia domanda. Io gli rispondo che mi colpisce il fatto che lo stia indossando sul polso malato e dolorante e gli chiedo nuovamente come mai. M. si irrita e mi dice che non poteva fare a meno di indossare l’orologio!
    Bene, rispondo io, ma non potevi tenerlo in tasca o indossarlo all’altro polso?
    Ecco, qui il viso di M. (un macho di circa 50 anni) si sfigura prendendo le sembianze di un bimbo di 3 anni. Colto dallo stupore e dalla meraviglia mi dice: “cazzo, non ci ho proprio pensato!”

Perché se sento dolore non faccio nulla per liberarmene? In che modo il mio cervello mi consente di continuare a “resistere” nonostante io mi lamenti? Perché diventa quasi più semplice arrendersi, o immaginare di non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose piuttosto che buttarsi a capofitto nella ricerca di una soluzione, di un cambiamento?

Per prima cosa vorrei provare a fare un gioco di immaginazione con voi tutti. Immaginate di essere stati esposti ad un gelo incredibile che vi ha portato un dito in cancrena. Vi recate in ospedale per chiedere di aiutarvi e subito vi dicono che si deve amputare immediatamente il dito perché si rischia la cancrena di tutta la mano.
Cosa provate a livello emotivo? Immagino che vi sentiate angosciati, pieni di orrore e che state pensando che non ne volete sapere di farvi tagliare il vostro meraviglioso dito, anche se in cancrena.
Immaginate quindi di tronare a casa e di trascorrere altri giorni senza fare nulla finché la cancrena coinvolge la mano. Vorreste chiedere aiuto, tornare in ospedale o rivolgervi a un medico, ma il terrore di sentirvi rispondere che si deve amputare la mano per intero vi blocca.
Così il tempo passa finché tutto il braccio va in cancrena e siete costretti a cedere perché a questo punto rischiate la vita.
Morale: invece di aver perso un dito, avete perso tutto un braccio.
Ora facciamo un’altra ipotesi. Immaginate che, arrivando in ospedale con il dito in cancrena, vi dicano che tagliandolo subito, ne crescerà un altro ancora più bello e più funzionale di prima: pelle liscia, unghia perfetta, articolazioni elastiche…
Cosa provate ora a livello emotivo? Provo ad azzardare che sia qualcosa di simile a curiosità se non proprio gioia. Entusiasmo, speranza, elettricità prendono spazio per spingervi immediatamente all’intervento.
Morale: non avrete un dito nuovo, ma sicuramente avrete ancora tutto il braccio e scoprirete presto nuovi modi per usare questa mano nuova.

Il punto cardine di queste riflessioni in cui ho scelto di spingervi è che si tende a preservare ciò che si conosce, anche quando non ci piace. Perché è familiare.
Se ad esempio sono cresciuto in un ambiente in cui ho ascoltato spesso frasi tipo “eh, brutta la vecchiaia: con il tempo arrivano capelli grigi e dolori”, “siamo nati per soffrire!”, “non fare come la zia zoppa” (la nonna pazza, la cugina anoressica, il nonno cieco…) può scattare un meccanismo molto nascosto attraverso il quale ci si identifica con il dolore, o la malattia o la sofferenza. Spesso fino a diventare qualcosa di simile a “soffro, dunque esisto”.
Pensate al detto “ho le farfalle nello stomaco” che a volte si sente usare quando una persona è innamorata. Spesso diventa il parametro per stabilire se si è o non si è innamorati del proprio partner (in realtà è un eccesso di adrenalina, che ha i giorni contati perché il corpo non può resistere ad eccessi per un tempo troppo lungo) e nel tempo questa condizione fisiologica viene ricercata come sinonimo di benessere affettivo, quando in realtà è una difficoltà fisica manifestata dallo stomaco.
Un altro elemento che può spiegare la scelta (seppure inconsapevole) dello stato di dolore è il divieto antico di piangere o lamentarsi. Se da piccolini ogni volta che ci si sbucciava un ginocchio e si piangeva, si veniva rimproverati perché ci si stava lagnando senza motivo (svalutazione del sentire altrui), ci si è trovati nella condizione necessaria di reprimere la sensazione di dolore. Dato che il dolore è realmente percepito, la frustrazione di non essere capiti genera un sentimento d’angoscia e di pericolo: non c’è nessuno che mi aiuta a contenere, capire, prendermi cura di ciò che provo. Io non vado bene, sono un debole, quindi è meglio se nascondo e imparo a non sentire (come nel caso del paziente con l’orologio sul polso bruciato).
In questi casi si arriva a livelli simili del “CIPA” (acronimo di Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis, Insensibilità Congenita al Dolore con Anidrosi) conducendo ben presto la persona tutta in condizioni di accumulo esplosivo. Questo vale sia per la rabbia inespressa, sia per dolori fisici che non mi consento di percepire, come in una sorta di ipnosi autoindotta. Finché non diventa più possibile trattenere, contenere, nascondere.
In letteratura molti autori hanno ipotizzato che esista una sorta di “patto di sangue” non scritto per appartenere ad un nucleo familiare. C’è chi ne parla in termini di copione familiare (E.Berne) per spiegare che ogni individuo appena nasce deve rispondere ai requisiti richiesti dal resto del nucleo che lo accoglie; chi in termini di sistemi cibernetici omeostatici (B. Hellinger con le costellazioni familiari). Per questi autori, il focus del lavoro terapeutico va impostato sull’acquisizione della consapevolezza dei propri vantaggi reconditi.
Per fare un esempio molto semplice, se i miei genitori in qualche modo mi hanno fatto capire che apprezzano la compiacenza e i sorrisi, tenderò a compiacere e sorridere anche quando sento rabbia perché questo è il vantaggio di continuare ad appartenere a quel tipo di famiglia, con quelle regole/valori. Il dramma è che essendo cresciuti così, sentiamo che tutto è “normale” e se ci viene il mal di testa è perché magari ho dormito troppo poco.
In altri casi il vantaggio può essere l’aver sperimentato di poter ricevere attenzioni e carezze solo quando si è malati.
In altri ancora si può essere registrato un giudizio negativo nei confronti della “leggerezza” che nel tempo conduce al bisogno di “drammatizzare” tutto per poter pensare di sé stessi di avere uno spessore.
Beau Lotto, neuroscienziato dell’University College di Londra, ricercatore nell’ambito delle percezioni, suggerisce di considerare “il nostro cervello come l’incarnazione fisica degli automatismi percettivi dei nostri antenati (B. Lotto, “Percezioni”, Bollati Boringhieri, 2017, pp.15). L’autore accorda a questi automatismi la responsabilità piena di molti dei nostri problemi.
Qui ho un altro aneddoto molto esplicativo. Un giorno una paziente mi raccontò di essere molto arrabbiata con la madre perché dopo generazioni intere aveva scoperto il perché del rituale del tacchino del ringraziamento. Da sempre prima di infilarlo nel forno si doveva tagliare una fetta a destra e una a sinistra. Più volte era stato chiesto spiegazione di questo gesto alla madre, alle zie, alla nonna, ma sempre era stato risposto “non so, si è sempre fatto così!”. Finché quella settimana, si era trovata a parlare della cosa in presenza di un prozio che ridendo ha commentato: “Ma era solo perché avevano il forno troppo piccolo! Oggi con i forni così grandi non serve più!”

Morale: sempre bene coltivare creatività, curiosità, elasticità mentale!

Cosa fare alla luce di tutto ciò?

Per quanto sia un’idea folle, proverò a tracciare una sorta di mappa di orientamento, che possa risultare utile nella vita pratica.

Primo esercizio

  • Scrivi con attenzione tutte le frasi ricorrenti che ricordi di aver sentito nella tua famiglia, che riguardassero il dolore (sia fisico che emotivo)
  • Scrivi cosa ti rispondevano o come reagivano ogni volta che piangevi
  • Fai una lista di tutte le persone che compongono la tua famiglia, dai nonni in poi e scrivi a fianco i loro sintomi rispetto al dolore (sia fisico che emotivo) e le modalità con le quali hanno vissuto la cosa.
  • Chiediti cosa devi fare per appartenere profondamente alla tua storia familiare? Cosa non ti è concesso assolutamente? Che cosa non ti perdonerebbero mai?

 

Successivamente, osserva quanto hai scritto e chiediti in che modo tutto ciò influenza oggi la tua vita.

Secondo esercizio

Per questo esercizio è necessario che tu non bari!!! Devi seguire lo step senza guardare il secondo passaggio.

Scrivi una lista di almeno 10 frasi che inizino con “io non riesco…….”

Ci sei?

L’hai completata?

Fai ancora uno sforzo, 6 sono poche, devi arrivare almeno a 10!

Bene.

Ora leggi tutte le frasi che hai scritto lentamente. Ascolta cosa provi. Poi prendi la penna rossa e cancella il verbo “riesco” e al suo posto scrivi “voglio”.

Ora le tue frasi dicono cosa tu “non vuoi”. Rileggile tutte con attenzione e prova a sentire quale fa più stridore, o dolore, o rabbia. Quale risuona di più.
Ultimo passaggio: chiediti quale potrebbe essere il vantaggio nascosto, profondo, che ti ha condotto a “non volere” quella cosa.

Se sarai sincero con te stesso, potrai scoprire cose interessanti.

Terzo esercizio

Chiudi gli occhi, prendi contatto con il respiro, cerca di rilassarti più che puoi. Quando ti sentirai abbastanza rilassato, cerca di immaginare di diventare tu stesso/a il tuo dolore. Chiediti che forma hai, se hai un odore, un colore. Al tatto come risulti? Quando ti senti abbastanza identificato, inizia a descriverti, senza aprire gli occhi e a presentarti. Quando avrai finito di presentarti spiega al “te” che ti è di fronte, che cosa sei venuto a fare, che cosa vuoi dirgli, cosa deve fare affinché tu possa lasciarlo/a in pace.

 

Buon divertimento, Buona vita!

 

 

 

 

 

 

 

 

Natale in famiglia: istruzioni per l’uso

“Puoi avere idee brillanti, ma se non riesci a farle capire non ti porteranno da nessuna parte”     Lee Iacocca

La parola “Natale” produce frequentemente due grandi reazioni: grande entusiasmo, angoscia e desiderio di fuga.
Perché?
Non credo abbia molto a che fare con l’amore/repulsione per le luci intermittenti, i regali promossi dal consumismo spinto, l’aderenza stretta alla forma religiosa.
Ritengo abbia molto più a che fare con le dinamiche familiari che si attivano in tutta la loro irruenza come mai nel resto dell’anno.
Perché magari non viviamo più sotto lo stesso tetto da un po’ di tempo, abbiamo “fuso” famiglie con tradizioni e origini molto diverse, … ma soprattutto perché è il giorno “dell’amore incondizionato” dove ognuno ritorna bambino e rimette in gioco le vecchie ferite, con il desiderio unico di riscattare l’amore che ritiene di non aver avuto.
Desidero partire da un breve racconto personale. (perché poi mettermi in gioco in prima persona, mi sembra sempre molto onesto)

“Natale di diversi anni fa (quasi un’epoca preistorica). Arrivo alla casa della famiglia d’origine piena d’entusiasmo (adoro le luminarie e la neve) proiettandomi subito nella collaborazione in cucina. Il fermento regna sovrano e mia madre

(la mitica nonna Abelarda, per chi ha il privilegio di ricordare il personaggio dei fumetti) come al solito dirige l’orchestra. Nel finire di completare l’apparecchiatura con le cose basilari, mi accorgo che non c’è acqua gassata. Chiedo al “boss” se ce ne fosse in casa e mi viene risposto di no.
La furia del Pelìde Achille inizia a fomentare tra un colpo di mestolo e una versata d’olio, finché il fuoco divampa con le peggiori ingiurie nei miei confronti che, non solo desideravo qualcosa che non era presente in casa, ma avevo osato tentare di recuperarla tramite qualche commensale in arrivo (avevo fatto un paio di telefonate ai nipoti in cammino). Vi risparmio i dettagli contenutistici, vi basti intendere che in 3 minuti ero stata degradata a indegna di compagnia affettiva nella totalità della mia vita, presente e futura.

Diversamente dal solito (il mio percorso personale di psicoterapia aveva già costruito strumenti validi) non parto al contrattacco, bensì mi apro alla curiosità e allo studio di questa donna bizzarra che, oltre ad essere mia madre, incarnava il vessillo della battaglia all’acqua gassata come se questa fosse il sangue di Satana.

Vengo colta da un’improvvisa intuizione: “vuoi vedere che ci è rimasta male perché si è dimenticata che amo l’acqua gassata?!” Da questa intuizione, scaturisce un gesto che si rivelò RIVOLUZIONARIO!

Mi avvicino, abbraccio la donna vessillo e le dico:
“Mamma ti voglio bene, non ti devi preoccupare di esserti dimenticata dell’acqua gassata per me. E’ normale, siamo tanti e ci vediamo poco. Non c’è problema: se me la portano bene, sennò sono felice comunque!”

Nonna Abelarda scoppia in lacrime e mi chiede scusa di essere stata sgarbata, aggiungendo che la motivazione era proprio quella di essersi sentita in difetto!!!

 

Non pensiate ora che la magia mi sia riuscita sempre da li in avanti, ma certo è che l’episodio ha cambiato il corso del Natale che poteva subito prendere una piega più che tossica!
in virtù della mia esperienza felice, sono qui a proporvi delle piccole “strategie” per tutelare il vostro Natale e, anche quello dei vostri cari.

COMUNICARE SIGNIFICA INTERPRETARE

  • Ricorda: se parli con un’altra persona stai traducendo i tuoi pensieri in parole per mandare un messaggio all’altro. Lei a sua volta sentirà il tuo messaggio e lo interpreterà.
  • È inevitabile che in una conversazione alcune cose vengano fraintese o neanche sentite. Magari l’altro era distratto, c’era del rumore o stava pensando a cosa dire dopo.
  • Ogni persona filtrerà ciò che sente in base alle sue aspettative e al suo umore.

La cosa più importante nella comunicazione è sentire quello che non viene detto: siamo molto meno bravi di quanto pensiamo a capire quando gli altri mentono. Quindi una buona dritta è di diffidare delle proprie interpretazioni.

Un modo per esercitarti a decifrare la comunicazione non verbale in maniera intelligente è tramite l’osservazione. In questi giorni che precedono la fatidica data temuta, prova a osservare le persone senza sentire quello che dicono, allenati partendo dall’ascolto e non parlando.

  • ASSUMERE LA PROSPETTIVA DELL’INTERLOCUTORE (punto fondamentale!)

Non preoccuparti, assumere la prospettiva altrui non significa “dare ragione”. Significa riconoscere che se qualcuno reagisce in un certo modo, se ha quelle aspettative c’è un motivo che lo rende comprensibile. Capendolo crei un territorio comune da cui partire a dialogare.

E il gioco è fatto 😊

Buon Natale comunicativo a tutti

Scrivi che ti passa!

“Canta che ti passa”: la funzione terapeutica del canto è nota sin dall’antichità, e ha ispirato miti come quelli del cantore Orfeo.

E se invece la cura fosse “scrivi che ti passa”?

Proviamo a vedere perché scrivere potrebbe risolvere gli eccessi emotivi: iniziamo osservando alcune evidenze neurofisiologiche.

Nell’ultima decina di anni diversi studi hanno rivolto il proprio interesse in merito alla relazione tra le pratiche Mindfulness [1] e la regolazione emotiva (Marchand, 2014). Molteplici evidenze empiriche sottolineano l’efficacia di tali tecniche in merito all’aumento dell’inibizione dell’ipereccitazione dell’amigdala resa possibile grazie al potenziamento della corteccia prefrontale.

Che cosa significa?

Nella prima figura è evidenziata la struttura cerebrale frontale mentre nelle altre due è evidenziata in rosso l’AMIGDALA, nelle due posizioni spaziali.

L’amigdala è l’area risultata deputata alla reazione fisiologica e comportamentale a tutto ciò che è considerato doloroso, spiacevole, cioè a tutti gli stimoli nocivi. E’un’area che produce risposte inconsce e automatiche. In parole povere la potremo considerare il freno a mano che ci inchioda al semaforo rosso.

Ora, ciò che è molto importante è sapere che per il cervello umano “immaginare visivamente delle cose non è differente dal vederle”[2]. Su questo punto tornerò a breve.

Le strutture frontali, come del resto tutte le strutture cerebrali corticali, cioè quelle più esterne nella stratificazione fisica, sono zone in cui arrivano le informazioni a livello cosciente.

Se immaginiamo le differenti aree del cervello come delle stanze di una casa, potremmo costruire una metafora del genere: sono in salotto, vedo un’ombra e automaticamente scappo pensando che sia un topo = ho acceso la luce in cucina senza esserne consapevole, per scappare da un topo che è in salotto.

Se invece vedo un’ombra e mi chiedo cosa possa essere, è come accendere immediatamente la luce in salotto per vedere di che cosa si tratta.

Uno scorretto equilibrio tra le strutture frontali ed il sistema limbico (dove risiede l’amigdala) è infatti alla base dei principali disturbi dell’umore. L’amigdala è l’archivio della nostra memoria emozionale, per ciò analizza l’esperienza corrente, con quanto già accaduto nel passato: quando la situazione presente e quella passata hanno un elemento chiave simile, l’amigdala lo identifica come una associazione ed agisce, talvolta, prima di avere una piena conferma. L’amigdala può reagire prima che la corteccia sappia che cosa sta accadendo, e questo perché l’emozione grezza viene scatenata in modo indipendente dal pensiero cosciente, e generalmente prima di esso.

In parole povere, questa area cerebrale ci conduce ad agire automaticamente.

Il problema dei processi automatici è il motivo per cui l’esperienza dell’attenzione focalizzata nelle pratiche di  Mindfulness risulta efficace  in tutti i casi di disequilibrio emozionale. Si può osservare infatti come questa pratica sfoci nel concetto di consapevolezza, raggiunto attraverso le tecniche di concentrazione orientata in modo esclusivo su un determinato “oggetto”.[3]

Senza addentrarci ulteriormente nei meandri delle numerose ricerche che convalidano l’utilità delle pratiche meditative, ritengo utile “conservare” il concetto di attenzione focalizzata per proseguire in questo breve percorso di ricostruzione della pratica della scrittura.

Spostandoci sul versante psicologico, fondamentali sono gli studi di P. Watzlawick.

Le tesi centrali alla base del pensiero di questo autore sono: in primo luogo che la nevrosi, la psicosi e in generale le forme psicopatologiche non originano nell’individuo isolato, ma nel tipo di interazione patologica che si instaura tra individui, in secondo luogo che è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrre le interazioni patologiche.

A un individuo può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico, le cui manifestazioni siamo soliti chiamare “follia”. Questa analisi, ben descritta in “Pragmatica della comunicazione umana”[4] non si limita a un’interpretazione dei meccanismi interattivi, ma scopre procedimenti pragmatici o comportamentali che consentono di intervenire nelle interazioni e di modificarle. “Paradossalmente” è proprio con l’iterazione di doppi messaggi o di messaggi paradossali, nonché con la “prescrizione del sintomo” e altri procedimenti di questo tipo che il terapeuta riesce a sbloccare situazioni nevrotiche o psicotiche apparentemente inespugnabili.

Partendo da queste premesse Watzlawick intende la terapia non come “guarigione”, ma come “cambiamento”. Secondo l’autore sono distinguibili due realtà, una delle quali è supposta oggettiva ed esterna, e un’altra che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo (come percepiamo e interpretiamo il mondo).

Ogni persona deve sintetizzare queste due realtà ed è questa sintesi che determina convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni.

Gli studi svolti nell’ambito della suddivisione di competenze tra i due emisferi hanno condotto in modo molto superficiale, ad una distinzione netta tra i due emisferi: il destro deputato agli aspetti logico-razionali e il sinistro deputato agli aspetti creativi.

Ricerche più recenti hanno messo in luce una situazione molto più articolata.

È il momento di ritornare all’affermazione citata poco fa: “immaginare visivamente delle cose non è differente dal vederle”.
Durante alcune ricerche sulla formazione di immagini mentali a occhi chiusi, Kosslyn ha notato una “via neurale” che coinvolge la parte “alta” del cervello (che comprende il lobo parietale e la parte superiore del lobo frontale), che utilizza le informazioni provenienti dall’ambiente per decidere gli obiettivi e le strategie da seguire. Nella parte “bassa” (formata dalla sezione inferiore del lobo frontale e dai lobi temporale e occipitale) sembra attiva una diversa “via neuronale”, che confronta le percezioni con le informazioni in memoria per interpretare e classificare oggetti e situazioni.
A seconda delle preferenze nell’utilizzo della parte “alta” o “bassa” del cervello, la “teoria delle modalità cognitive” consente di delineare quattro modalità principali di pensiero: “dinamica”, “percettiva”, “stimolativa”, “adattiva”.
Non è semplice descrivere che cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo, quando elaboriamo gli stimoli sensoriali, quando pianifichiamo o eseguiamo attività motorie; sappiamo, però, che vengono coinvolte numerose aree dei diversi lobi (frontale, parietale, temporale e occipitale) in entrambi gli emisferi.

Ciò che ci è utile in questa osservazione è comprendere come tra il pensiero e il movimento/azione, si attivano aree cerebrali differenti.
Numerosi neuro scienziati[5] stanno esplorando che cosa accade realmente nel cervello durante il processo creativo. Emergono tre aree coinvolte nelle varie fasi (chiarificazione, ideazione, elaborazione, selezione, applicazione) del processo creativo.
Se svolgiamo attività che richiedono un’attenzione focalizzata, (utilizzata dalla Mindfulness) come, ad esempio, seguire una lezione impegnativa o analizzare un problema complesso, si attivano connessioni (Executive Attention Network) tra le regioni della corteccia prefrontale e le aree della parte posteriore del lobo parietale.

Quando dobbiamo costruire immagini mentali di esperienze passate, pensare a progetti futuri o immaginare alternative a scenari attuali, entrano in azione aree profonde della corteccia prefrontale, del lobo temporale e varie regioni (esterne ed interne) della corteccia parietale. Questa rete di collegamenti (Imagination Network) è coinvolta anche nelle relazioni sociali, quando cerchiamo di immaginare, ad esempio, a che cosa stia pensando il nostro interlocutore.
Il terzo “circuito cerebrale” (Salience Network) monitora costantemente sia gli eventi esterni, sia il flusso di coscienza interno e, a seconda delle circostanze, dà la precedenza alle informazioni più salienti per risolvere il compito. Coinvolge la corteccia prefrontale mediale (cingolata anteriore) e la corteccia insulare anteriore. Questo “circuito” si incarica, inoltre, di attivare ed alternare l’Executive Attention Network e l’Imagination Network.

Tornando agli assunti proposti da Watzlawick e osservandoli trasversalmente con gli studi di fMR e le ricerche sulla Mindfulness, può iniziare a emergere perché spostare il pensiero sulla scrittura può risultare benefico: scrivere consente di “spegnere” alcune aree cerebrali e lasciare che se ne accendano altre.

Ma perché è così utile che si spenga l’area ipotalamica (che comprende anche l’Amigdala) e si accenda un’area corticale?

Perché la zona ipotalamica oltre a dare spazio ad azioni automatiche (quindi spesso non funzionali) è anche sede della possibilità di godere di qualcosa.

Riassumendo: quando mi accorgo di sentire troppa paura, troppa rabbia, troppo dolore, posso SCRIVERE. Scrivendo, sposto il contenuto dei miei pensieri in una zona cerebrale che mi aiuta in due modi: libera la zona che può farmi godere di cose belle presenti in quel momento e consegna alla parte analitico/razionale l’elaborazione dell’emozione in eccesso, consentendo in tempi brevissimi di percepire il rallentamento dei pensieri prima, e l’alleggerimento della sensazione angosciosa poi.

Potremo dire che scrivere è una “forma meditativa” che come nella Mindfulness attiva la fatidica attenzione focalizzata così preziosa per sentirsi più leggeri e liberi da pensieri persecutori o intrusivi che non ci consentono di vivere appieno del presente.

Se è vero che ciò che viviamo è ciò che esperiamo quotidianamente, è fondamentale fare esperienze positive e gratificanti. Per poterlo fare abbiamo bisogno di liberarci di tutti quei pensieri inutili che vengono prodotti da eccesso emotivo incongruo.

E così,… SCRIVI CHE TI PASSA!

Per concludere vi propongo un esperimento.

Poniamo una situazione in cui siete molto arrabbiati con qualcuno, tanto da fare fatica a concentrarvi sulle vostre azioni quotidiane.

La sera, scrivete una lettera a questa persona che inizi con “caro/a…….” e che continui con tutti gli insulti e improperi che vorreste potergli urlare. Fino a completa soddisfazione. Quando avete finito, la riponete in un cassetto al sicuro.

Questo per ogni sera necessaria fino allo scemare della rabbia.

Raggiunto lo scopo di liberarvi della rabbia in eccesso, potete gettare le lettere.

Buona scrittura.

 

Per approfondire i temi trattati:

  • “La Mindfulness. Il non fare, l’accettare e il fare consapevole.” Rainone, Cognitivismo clinico 2012.
  • “Effects of mindful-attention and compassion meditation training on amygdala response to emotional stimuli in an ordinary, non-meditative state. Frontiers in Human Neuroscience.”
  • “Mindfulness-based interventions in context: past, present, and future.”, Kabat-Zinn J., Am  Psychol Assoc, 2003.
  • “Fisiologia del comportamento”, N. Carlson, Ed. Piccin-Nuova Libraria, 2014.
  • “Psicofisiologia Degli Eventi Critici: verso la consapevolezza del Se’ e dell’ Altro”, Bertuzzi, Cornali, Bertoli, Arnoul, Ed. Edra – Masson, 2018.
  • Watzlawick, “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi” ed. Astrolabio, 1978.
  • Watzlawick, “Change: la formazione e la soluzione dei problemi”, ed. Astrolabio, 1974.
  • Watzlawick, “La realtà inventata”, ed. Feltrinelli, 1988.
  • Watzlawick, “Istruzioni per rendersi infelici”, ed. Feltrinelli, 1997.
  • Watzlawick, “Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico”, ed Feltrinelli, 1988.
  • Watzlawick, “Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica”, ed. Feltrinelli, 1999.

Note:

[1] Letteralmente, la parola Mindfulness “mente piena” deriva dalla lingua Pali “Sati” e significa “attenzione consapevole”. Più in generale può essere definita come una particolare pratica meditativa, ma principalmente è una naturale capacità della mente umana che permette la gestione dello stress infondendo uno stato di rilassamento e di alterazione della coscienza come l’ipnosi, il training autogeno e il rilassamento progressivo (Vaitl et al., 2005).

[2] “Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo”, Beau Lotto, Ed. Bollati Boringhieri, 2017.

[3] “Mindfulness-based interventions in context: past, present, and future.”, Kabat-Zinn J., Am Psychol Assoc, 2003.

[4] “Pragmatica della comunicazione umana”, P. Watzlawick, J.H. Beavin,D.D.Jackson, ed. Astrolabio, 1978.

[5]Jeremy Gray (Michigan State University), Adam Green (Georgetown College), John Kounios (Drexel University, Philadelphia), Rex Jung (University of New Mexico), Kalina Christoff (University of British Columbia)

 

 

 

 

 

 

Ansia che passione!

Salve.

Se siete qui, forse è anche perché avete cercato in rete la parola “ansia” o spiegazioni in merito a questo stato. Iniziamo a dare una connotazione semplice. Chiedendo al dizionario, la risposta è:

  1. affannosa agitazione interiore provocata da bramosia o da incertezza.
  2. in psichiatria, senso di apprensione simile all’angoscia.

Ora proviamo ad addentrarci un poco più in profondità.

Cosa si intende per “bramosia”?

La bramosia è un “ardente desiderio di qualcosa (godimento, vendetta, ricchezza, riconoscimento, etc.)

Secondo l’Enneagramma di C. Naranjo alcuni tipi di carattere provano spesso un senso di bramosia, di melanconia o di invidia per ciò che manca. Questo li condanna alla visione del “bicchiere sempre mezzo vuoto”, alla personale gabbia del perennemente incompleto, per la quale non ci si può mai sentire a posto, sicuri, appagati. In estrema sintesi, non vi è la capacità di godere per ciò che è, di sentirsi grati per ciò che si vive.

Questa è sicuramente una delle prime osservazioni che si possono fare sull’Ansia.

Se è la bramosia che mi spinge, è molto probabile che non riuscirò mai a raggiungere uno stato di benessere interno, semplicemente perché la méta che mi sono posto è irraggiungibile. In questa descrizione rientrano tutti i tipi di ansia da prestazione e ansia sociale (un’eccessiva preoccupazione del giudizio altrui).

Qui si può mettere nel cassetto il primo strumento da utilizzare:

  • Posso accettare di essere “imperfetto” e di sentire che vado benissimo così come sono. Tra Peter Parker e L’uomo ragno non c’è differenza.

Cosa si intende per incertezza?

  1. mancanza di esattezza, chiarezza, stabilità.
  2. limitazione all’efficienza del comportamento, provocata da condizioni di dubbio o d’indecisione.

In tutti i passaggi di questa definizione possiamo estrapolare due oggetti: un esubero di emozionalità che conduce al calo di lucidità cognitiva e il dubbio.

Qui si deve necessariamente spendere qualche parola in più.

L’eccessiva preoccupazione del giudizio-riconoscimento da parte del mondo esterno (principalmente delle figure a me particolarmente care) di cui abbiamo appena parlato, produce il meccanismo paradossale di renderci meno performanti.

Nel momento in cui metto al centro della mia attenzione il desiderio (bramosia) di essere apprezzato-amato, circa l’80% della mia energia si disperde in pensieri del tipo “il vestito mi starà bene?”, “speriamo che nelle slide della presentazione non ci siano errori”, “devo superare la dialettica del collega che mi ha preceduto, altrimenti mi soffia il posto”, etc.

Mentre formulo (inconsapevolmente) questi pensieri, l’attenzione realmente necessaria a quanto devo fare si diluisce. Viene come resa fumosa da tutti gli altri pensieri e questo renderà la mia esposizione oggettivamente peggiore di quanto avrei potuto.

Alla base di un tale processo vi è spesso una serie di convinzioni illogiche: “io non vado bene e devo sforzarmi al massimo per sperare di avere un posto nella vita”,

“io sono il migliore, ma nessuno mi capisce, è tutto inutile”.

Le motivazioni per le quali si siano insediate in noi tali convinzioni illogiche sono oggetto di un percorso di indagine e ristrutturazione durante una psicoterapia, in ogni caso proveremo anche qui a fornire un rudimentale strumento:

  • Nessuno è venuto al mondo per rispondere alle aspettative di qualcun altro. Chi mi ama, lo farà per sempre qualsiasi cosa io possa fare. Chi non mi ama, non mi amerà mai, qualsiasi cosa io possa fare: quindi tanto vale che io faccia solo ciò che sento e desidero più profondamente.

Veniamo al dubbio.

L’enciclopedia Treccani lo definisce come uno “stato soggettivo d’incertezza, da cui risulta un’incapacità di scelte, essendo gli elementi oggettivi considerati insufficienti a determinarle in un senso piuttosto che in quello opposto.”

Da questa definizione si può facilmente capire che la chiave di volta è nella domanda. Se gli “elementi oggettivi sono insufficienti” è normale non sapere quale sia la risposta esatta!

Qui ci si dovrebbe addentrare nel campo delle euristiche; non essendo possibile mi limiterò a fare un semplicissimo esempio utilizzando un’inferenza (rilevazione parziale).

Poniamo di incontrare un amico e collega professore universitario per la strada con dei pacchi in mano. È un giorno feriale e sono le 11.00 del mattino. Io sono in giro perché è il mio giorno libero.

Questi sono gli unici dati certi e oggettivi in mio possesso.

Evento: ci incrociamo sul marciapiedi, lo saluto e non mi risponde.

Quali sono le inferenze che posso fare? Intendo, quelle basate sui dati oggettivi reali.

  • Il mio amico oggi alle 11.00 non è all’ Università.
  • Il mio amico non mi ha salutato.
  • Il mio amico non sta guidando l’auto.
  • … e mille altre che in questo contesto risulterebbero solo dispersive.

Posso sapere perché non mi ha salutato?

No.

A meno che io non glielo chieda e decida di credere a quanto mi risponderà!

È lecito avere il dubbio che non mi abbia salutato perché non voleva far sapere che non era sul luogo di lavoro?

No.

Ci sono serie numerose di ipotesi, ma nessuna certezza: pochi elementi.

Un altro esempio può essere la scelta tra due contratti di lavoro:

  • Milano, € 000 mensili, 48 ore settimanali, azienda leader con circa 300 dipendenti età media 50. Contratto a tempo indeterminato.
  • Catania, €000 mensili, 40 ore settimanali, azienda giovane con 20 dipendenti età media 35. Contratto a tempo indeterminato.

Posso sapere qual è la scelta migliore?

No.

Posso solo fare tutte le valutazioni degli aspetti oggettivi in base alle mie proprie categorie di importanza per cercare di immaginare in quale condizione mi potrei trovare bene.

L’unica cosa che mi rimarrà da fare è agire. L’unica arma in mio possesso: poter cambiare strada se mi dovessi rendere conto che non mi piace.

Si può sempre cambiare idea!

Avere dubbi è naturale, il problema è quando ci facciamo bloccare da essi.

Il dubbio patologico è una forma specifica. È caratterizzato dalla presenza di domande alle quali la persona cerca di dare risposte, senza però trovarne mai una definitiva.

In questi casi il problema è nella domanda: si tratta di domande che non ammettono mai una risposta unica, ma solo risposte possibili che apriranno la strada inevitabilmente ad altre domande.

Le domande possono riguardare qualunque argomento: “come parlo?” “come guardo?” “avrò fatto bene a toccare quella cosa?” “sono omosessuale? Sono pazzo? Rischio di diventarlo?”, etc.

Non tutto nella vita si può risolvere razionalmente: la ricerca spasmodica di una risposta razionale ad una domanda irrazionale si può solo trasformare in una rimuginazione continua e infinita che produce un senso di ansia incontenibile.

Le sensazioni sono legate soprattutto all’ansia o alla paura di non essere mai all’altezza del lavoro, della scuola, delle relazioni, della vita in genere. Tutto viene vissuto allora come un grande peso e può essere presente uno stato di insoddisfazione che può anche essere confuso con sintomi depressivi, tanto da portare il medico a prescrivere farmaci antidepressivi.

Anche in questo caso sarà necessario un intervento di psicoterapia (a volte anche abbastanza breve), in ogni caso tenteremo di aggiungere un altro strumento:

  • Quando mi accorgo di aver posto una domanda irrazionale, devo ricordare che non ha una risposta univoca!
  • Di fronte a qualsiasi domanda che genera un dubbio, posso ricordarmi di avere sempre la possibilità di cambiare.

 

 

 

Traumi e conseguenze

Spesso mi chiedono se lo stato d’animo o il carattere di una persona dipenda più dalla genetica o dall’ambiente, o anche se un trauma subito può cambiare per sempre la vita di una persona. Rispondere sinteticamente non è cosa semplice, in ogni caso farò un tentativo.

Partiamo da questo schema (ripreso da “Analisi Transazionale e psicoterapia di E. Berne):

Immaginiamo che queste quattro colonne rappresentino la vita di quattro individui diversi. La linea superiore rappresenta il fenomeno osservabile (cioè quello che si pone in figura, ciò che diviene visibile all’occhio esterno).

Il soggetto A risulta in equilibrio e osservando il suo percorso di vita si può approfondire l’evidenza che non abbia avuto difficoltà particolarmente destabilizzanti.

Il soggetto B si mostra non perfettamente equilibrato: nella sua vita vi è stata una difficoltà che lo ha segnato particolarmente e dalla quale non ha saputo ripristinare un nuovo equilibrio.

Il soggetto C si mostra visibilmente disfunzionale. Nell’arco della sua vita si sono ripetuti momenti di difficoltà dello stesso genere, tali da rinforzare ogni volta la “cattiva postura” (esattamente come succede alla spina dorsale se si reitera una posizione scorretta ad esempio alla scrivania) fino a portarlo ad un rischio possibile di cedimento.

Il soggetto D ad uno sguardo superficiale si mostra in equilibrio. Osservando meglio la sua struttura interna, si può vedere come abbia sostenuto varie situazioni di difficoltà di ordine differente da formare un’instabilità intrinseca momentaneamente e fortunatamente compensata.

Facciamo ora degli esempi di vita possibile.

Il soggetto A è un bambino normo dotato che nasce in una famiglia serena ed equilibrata da un punto di vista psicoemotivo. Ogni difficoltà della sua vita viene vissuta in un ambiente capace di contenere e condividere ciò che sente e vive. Può permettersi di sentire ed esprimere sia la gioia che la paura o il dolore: ogni cosa ha la sua dignità e si può esprimere senza censure.

Il soggetto B potrebbe essere un bambino che perde la mamma all’età di circa 5 anni (ovviamente sono solo delle ipotesi di tipologie di eventi difficili). L’evento in sé è fortemente traumatico e genera senso di abbandono.

Ora le ipotesi sono molte, ne osserviamo due in particolare:

  • il bambino è normo dotato psicoaffettivamente, ma nasce in un ambiente che non riesce a contenere l’evento in modo equilibrato. Si fa finta di nulla, si piange di nascosto, non si parla più della mamma morta, ci si chiude a livello affettivo…, le figure di riferimento rimaste diventano fredde lasciando il bambino solo nel suo senso di abbandono. Questa esperienza rimane una ferita aperta e non guarita che influisce nel presente dell’adulto che potrà funzionare benissimo in tutte le aree razionali e potrà avere (è solo un’ipotesi) difficoltà ad esempio nelle relazioni intime.
  • il bambino è nato con delle fragilità psicoaffettive. Cresce in un ambiente molto equilibrato e capace di contenere l’evento traumatico. Le figure di riferimento riescono a vivere in modo sano ed equilibrato la perdita, l’affettività non viene persa e questo basta ad accompagnare il bambino ad un’età adulta abbastanza funzionante, dove la lieve flessione di funzionamento osservabile è data dalla sua particolare fragilità emozionale (in gergo si potrebbe definire un soggetto con scarsa resilienza).

Il soggetto C risulta visibilmente non equilibrato. Potremmo ipotizzare una storia di questo tipo: non desiderato alla nascita, osteggiato dai fratelli che lo relegano a “pecora nera” della famiglia, bullizzato a scuola, rifiutato nei tentativi di approccio sessuale in adolescenza, rimane single, trova un lavoro frustrante e dopo anni di dedizione subisce un mobbing. (questi alcuni esempi di crisi ripetute nella stessa direzione del sentirsi rifiutato)

La struttura familiare abbiamo già ipotizzato essere poco funzionale e anche se il soggetto avesse una grande resilienza (capacità di tenuta) verrebbe comunque messo a seria prova. Il risultato fenomenologicamente disequilibrato ha un’alta possibilità di verificarsi.

Il soggetto D sembra perfettamente funzionante. È un uomo in carriera, ha una bella famiglia, va d’accordo con tutti, ha molti amici e ottimi rapporti con la famiglia d’origine.

A cinquant’anni la moglie lo lascia per un altro uomo. Inaspettatamente lui “impazzisce”. Manifesta una rabbia incontrollata, litiga con tutti, nel tempo anche la sua azienda arriva a rischio di fallimento per la sua ormai quasi totale distrazione sul lavoro.

Ciò che non si vedeva in superficie era la sua fragilità di fondo. Si potrebbero ipotizzare eventi di questo tipo: un bambino normo dotato che nasce in una famiglia dove il babbo è poco presente e la mamma imposta una relazione di codipendenza. Negli anni impara che deve compiacere per mantenere lo stato dei luoghi e questo lo porta a ingoiare diverse situazioni frustranti di varia natura nel corso di tutta la sua esistenza. Un po’ come se avesse impostato la sua esistenza con un “sarò come tu mi vuoi e questo mi permetterà di essere sempre amato”. Quando il patto salta, salta tutto il resto.

Veniamo ora alle domande utili: Si può “raddrizzare la colonna”?   Si!   Qualsiasi tipo di trauma e qualsiasi tipo di conseguenza esso abbia lasciato, può essere trattato con buoni risultati.   A volte fino alla possibilità di riportarsi in equilibrio costantemente. A volte con qualche difficoltà in più (dipenda da quanto si è strutturata la “scoliosi”). Un buon percorso di psicoterapia è paragonabile a una buona ginnastica posturale per il recupero dell’assetto della spina dorsale. Certo è fondamentale la costanza e l’impegno e quindi una forte motivazione da parte della persona che cerca aiuto.