In “Lutto e melanconia” (1917, Metapsicologia) Freud rileva come a volte una persona può essere “consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando, ma non sa cosa è andato perduto in lui”[1]
Non voglio addentrarmi in disquisizioni tecniche o esercizi di stile, ma solo proporre delle riflessioni circa il “cosiddetto” lavoro del lutto.
Quando una persona perde un affetto importante ci sembra normale che soffra e ci si attende che in un tempo più o meno breve questo stato di prostrazione rientri.
Non ha importanza se la perdita sia oggettiva (conseguente alla morte fisica) o abbandonica (un marito che lascia, un amico che si trasferisce in un’altra città…), ormai nel pensiero collettivo ci si può intendere bene parlando genericamente di “lutto” e di un tempo congruo affinché lasci nuovamente spazio al sorriso e alla gioia di vivere la propria vita.
Probabilmente a molti è capitato almeno una volta di vivere un lutto e di sentirsi incompreso: dopo qualche mese, al massimo un anno è successo di essere giudicati dalle persone che condividono la nostra vita perché “siamo ancora fermi al dolore, …ancora pensiamo a questo evento…”.
In questo caso, oltre al dolore si aggiunge un senso d’inadeguatezza.
Che cosa succede quando la perdita non viene elaborata? Che cosa blocca la possibilità di riprendere il proprio cammino e recuperare l’armonia interna?
A mio avviso questo accade quando ciò che si perde non è mai esistito. Cioè s’inizia a fare i conti con il fatto che ciò che si è perduto è un’idea personale, una costruzione fantastica della persona perduta o della qualità della relazione con lei.
Facciamo un esempio.
Nel corso della vita ho sempre descritto il mio rapporto con mia sorella come un rapporto meraviglioso e appagante. Le tensioni con i genitori sono sempre state compensate dalla gioia di avere “almeno un rapporto speciale di fiducia incondizionata.” I genitori muoiono, gli equilibri saltano ed emergono realtà terribili. (quante famiglie devastate conoscete che in situazioni di eredità sono completamente esplose?)
Improvvisamente quel rapporto meraviglioso non c’è più. Si soffre, ci si arrabbia, non si capisce bene che cosa sia successo e non si riesce a uscire dalla trappola.
Ecco.
In questo caso ciò che si è perso è l’illusione. Il proprio “castello di carta.”
L’idea di avere un rapporto di un certo tipo, un ruolo nella vita di alcuni cari, una dimensione affettiva che in realtà non c’era.
Qui si aggiunge un sentimento di fallimento o di tradimento. Le domande che si aprono possono essere: “come ho fatto a pensare che andasse tutto bene? Come ho fatto a non vedere? …”, “com’è possibile che proprio lei/lui mi tradisca? Da lui/lei non me lo sarei mai aspettato!”.
Perché non abbiamo visto o perché abbiamo costruito un castello di carta nella nostra mente?
Perché spesso la realtà è troppo dura da accettare e cerchiamo, inconsapevolmente, di migliorarla in modo che possa essere pensabile.
Una madre fredda, rifiutante, aggressiva, non affidabile è una realtà insopportabile. Così o la facciamo diventare un’Atena irraggiungibile, o cerchiamo degli alleati nel sistema che possano alleggerire il triste destino.
Un compagno/a infedele visto/a come affidabile e amorevole, un amico/a percepito/a come un solido punto di riferimento, sono a volte tutte proiezioni di un bisogno profondo di colmare un vuoto affettivo.
Per la prima parte della nostra vita, questo “mascheramento” può funzionare proteggendoci dal dolore devastante di non aver avuto il nostro spazio di affidabilità incondizionata. Poi arriva il momento in cui il castello illusorio crolla e il lutto da elaborare è molto più difficile della perdita fisica di una persona con cui si è avuto un rapporto affettivo vero.
Perché ciò da cui ci dobbiamo separare è la speranza che ci possa essere finalmente giustizia, un “riscatto”, un “recupero” di questa mancanza così dolorosa.
Vedere la realtà, è il primo passaggio complicato. Accettarla può diventare impossibile.
Se si sceglie di coltivare la rabbia, il rancore, sentendoci vittime si alimenta l’ancoraggio al sogno e in questo modo non può esserci nessuna elaborazione del lutto.
Rimaniamo sotto scacco. Bloccati nella nostra vita.
Cosa si può fare?
L’accettazione implica il perdono: ognuno è come può.
Il secondo passaggio è iniziare a guardare cosa c’è, uscendo dal circolo vizioso dell’osservazione della mancanza: si scopre sempre tanto di cui potersi riempire il cuore.
E’ andata com’è andata. Rimanere bloccati nel passato non ci permette di vivere la vita reale e presente.
Come aiutare un amico/a che vive questo tipo di perdita?
Sospendendo il giudizio e facendo sentire quanto amore c’è nella vostra relazione vera.
L’amore è l’unica cosa che cura!
[1] S.Freud, Metapsicologia, Bollati Boringhieri, 2002, p.128.