Amore

Amore     
dal latino: A, alfa privativo greco (che nega la parola che segue) + mors che significa morte. Questo viene interpretato come “amore senza fine”, “amore come unica forza in grado di sconfiggere la morte”, o simili concetti.         
A volte, paradossalmente nella vita quotidiana, diventa esattamente il suo “contrario”: ti amo da morire…. a voler indicare che il proprio amore è ancora più grande di un amore che sconfigge la morte e ne accetta la sua supremazia      …
Il punto su cui vorrei posizionare il focus è un’interpretazione credo maggiormente evolutiva:

                                             “tutto ciò che combatte la mortificazione dell’Altro  
                                                          è l’informazione che il cervello         
                                                          incarnato riconosce come amore”    
                                                               (cit. Daniela Lucangeli)

Quando ho ascoltato la P.ssa Lucangeli fare questa asserzione durante una conferenza, ho sentito che finalmente avevo trovato la definizione per questa parola, così difficile e vischiosa AMORE.        
La relazione con l’Altro è sicuramente l’impresa più olimpionica alla quale possiamo decidere di dedicarci in tutto lo scibile dei fatti terreni.  A mio avviso, rientra in questa impresa anche la relazione con i figli. Si. Perché spesso è difficile anche con loro fare un passo indietro, lasciarli liberi di andare dove vogliono esplorare, lasciarli liberi di essere.    
Credo che la trappola sia il bisogno di controllo che si appoggia sulla condizione esistenziale più gettonata del “io sono Ok, tu non sei Ok” (crf. E. Berne) 
Provo a spiegare il mio flusso di pensiero: nasco (come la maggior parte degli esseri umani) in una famiglia poco consapevole delle dinamiche psicologiche e dove vigono delle regole che vanno seguite abbastanza alla lettera (poi ci sono anche casi in cui le regole non esistono proprio, ma il risultato di insicurezza finale non cambia); tendenzialmente ci sono due grandi possibili derive: cresco insicuro perché quello che penso/dico/faccio non va mai bene; cresco con la convinzione di essere una sorta di semidio e poi sarà il mondo esterno a bastonarmi pesantemente.  
Questo conduce inevitabilmente a vivere una ferita narcisistica molto forte (io non vado bene così come sono) che spinge alla tentata soluzione paranoica di convincersi in realtà di essere gli unici ad aver capito come deve funzionare il mondo, come si devono vivere le cose della vita, come e quali regole sono “giuste”.         
Questa ferita narcisistica può influenzare profondamente le relazioni con gli altri. Il desiderio di controllo, derivato dalla paura di non essere abbastanza, può portare a soffocare l’autonomia e la libertà dei propri figli, del proprio compagno/a, impedendo loro di crescere, esistere e di esplorare il mondo in modo autentico.          
              Amare veramente significa lasciare andare, significa accettare che l’Altro sia diverso da noi e che abbia il diritto di essere se stesso. Significa abbracciare la vulnerabilità e la complessità delle relazioni umane, accettando che non sempre siamo nella posizione di potere.           
In questo senso, l’amore diventa un’azione attiva che cerca di proteggere l’integrità e l’autonomia dell’Altro, piuttosto che cercare di imporre i nostri desideri e le nostre paure su di loro. Amare è un atto di coraggio, un atto di fiducia nell’essere umano e nelle sue capacità di crescita e di evoluzione.

Per concludere, penso che l’amore sia il motore principale che guida le nostre relazioni e che, se coltivato con consapevolezza e rispetto, può portare a una crescita personale e relazionale senza fine.

Amare, dunque, significa lottare contro la mortificazione dell’Altro, significa riconoscere e rispettare la sua unicità, permettendogli di essere se stesso senza giudizi o condizioni, godendo del privilegio di potergli essere accanto, di poter essere ispirati dalla sua diversità di sguardo.

Fare Spazio…come costruire relazioni piacevoli

Fare spazio.

Cosa significa?

Nei miei ricordi, “fare spazio” è associato a qualcosa di scomodo, fastidioso, noioso.      
Mi sentivo chiedere spesso di “fare spazio”: togli i tuoi giocattoli, dobbiamo cenare; sposta le tue bambole, la tata deve stirare; stringi le foto, sennò non entrano tutte nella pagina.       
Insomma, ragionando in termini di “significato/significante (come direbbe De Saussure), la frase “fai spazio” è legata spesso a qualcosa di negativo.

Forse è proprio qui il problema!

Già, perché se si desidera avere “qualcuno” nella propria vita, fare spazio è imprescindibile. E non è un’attitudine innata, è qualcosa che si costruisce, che si deve coltivare, nutrire, curare.

Ancora una volta sta arrivando il Natale: croce e delizia di ognuno di noi.             
Molte sono le famiglie, i nuclei lontani, anche se non troppo lontani, e quando arriva il Natale, già dai primi giorni di novembre, si inizia a delineare la trama della possibile “tragedia”.            

Dai miei o dai tuoi? Tu dai tuoi e io dai miei? Il 24 dai tuoi e il 25 dai miei? E santo Stefano? Eh, ma io ho due “Stefani” in famiglia, tu solo uno!…           
Giorni di dibattiti, di lotte intestine ad accaparrarsi la parte più lunga di una coperta che sarà sempre troppo corta, perché qualsiasi sia il verdetto finale, il problema resta “fare spazio”!

Si, perché il vero focus della cosa è la capacità (o meglio dire la volontà) di fare spazio. Fuori, ma soprattutto dentro!

Mi spiego meglio.

Abbiamo deciso per il 24 tutti da noi: i miei e i tuoi. Si fermano anche a dormire perché si farà troppo tardi e la nonna, povera, ha già 87 anni. 
Dove li facciamo dormire?          
Quale bagno devono usare?      
No, non esiste, io il mio letto non lo cedo: non fa niente che il letto della camera degli ospiti non è tropo comodo, tanto se ne devono andare domani!  
Nel bagno grande ci sono tutte le mie cose, li mettiamo in quello piccolo, però non ho voglia di togliere tutte le scope dalla doccia: tanto mica si dovranno fare la doccia, si fermano solo una notte! Se la fanno a casa.

Prepariamo la stanza, tra libri, scatole, vestiti, scarpe, pc, casse, valigie, stendino… Va benissimo così. Ci arrangiamo tutti.

Magari vedo anche la meraviglia della stanza preparata e mi faccio anche i complimenti per essere stat@ così ospitale.

Il frigo è pieno: latte, yogurt, uova, carne, pesce, vino bianco, acqua gassata, burro, pancetta…, non fa nulla che mi sono dimenticat@ che loro sono vegani e la nonna ha il colesterolo da tenere sotto controllo.

Spazio.

Ho dello spazio per qualcosa che vada oltre me?
Ho desiderio di svuotarmi un poco di me per poter accogliere te?

Si, perché per potersi incontrare veramente, abbracciare, toccare (soprattutto nel cuore) serve svuotare l’EGO. Rinunciare per un tempo, ad essere abitat@ completamente da me e dalle mie abitudini; magari raccontandomi anche che sono le migliori abitudini del mondo, così che tutti si potranno trovare bene ad essere inseriti nelle mie!

Ecco, credo che il problema principale del Natale sia questo. La difficoltà a fare spazio per accogliere. Chiedersi se siamo veramente disponibili.

Togliere i miei vestiti da un’anta dell’armadio per fare spazio ai tuoi vestiti, togliere le mie cose dal bagno per far spazio alle tue, chiedermi che cosa ti fa piacere mangiare per il piacere di vivere per due giorni il tuo mondo, o anche solo vederlo attraverso i tuoi occhi.

Essere destabilizzati e portati fuori dalla zona di confort.

Se stare insieme a Natale non significa questo (fare un viaggio all’interno del mondo dell’Altro), quelle ore condivise possono solo risultare pesanti, formali, irritanti…, tanto da iniziare il conto alla rovescia solo dopo due ore.

È un po’ come avere un figlio: se non mi svuoto di me, come accolgo te?

A questo punto credo che alcuni di voi stiano gongolando nel pensare “io non sono così, io sono bravissim@ nell’arte dell’accogliere!”

Mi ricordo tutto quello che piace e non piace, cedo la mia camera da letto per fare spazio a loro, ho già fatto la spesa per tutti e 15 giorni che saranno qui e anche preparato una lista di cose meravigliose da fare insieme…

Il punto è che lo spazio da fare è prima di tutto dentro di noi. La disponibilità di cui sopra, necessita di rispetto, tempo e pazienza. Permettere all’altro di avere il tempo di sentire che cosa desidera, avere il tempo e la possibilità di potermelo chiedere senza sentirsi in obbligo di accogliere e gioire di tutte le cose che posso aver anticipato già.

Fritz Perls ha parlato di “vuoto fertile”, l’arte profonda e rarissima di chi sa farsi vuoto per aspettare di poter accogliere ciò che arriverà. Senza aspettative, senza pretese.

Un po’ come stare fermi a braccia aperte, pronti ad accogliere qualsiasi cosa arriverà, solo per la gioia del fatto che sta arrivando qualcosa. Anche un rifiuto!

Si, anche un rifiuto. Perché se una persona che amo e che mi ama si sente libera di dire “no”, significa che si sente libera di poterlo fare. E questo è veramente un gran bel segnale d’Amore.

La chiave perciò, potrebbe essere concentrarsi sulla novità, sulla sorpresa, su cosa porta nella mia vita la presenza di altri per qualche tempo. Rimanere aperti e fluttuanti, come fare un viaggio esotico! Pronti a gioire di qualsiasi cosa, ricordandoci che la vita non è eterna e dare amore e libertà è nutriente soprattutto per chi dona.

…e se non è così, meglio lasciar perdere: sappiamo già che sarà solo una tortura per tutti.

Auguro a tutti noi un meraviglioso vuoto fertile di preparazione per il Natale che sta arrivando.

Relazioni a tempo

Accolgo ogni giorno racconti di dinamiche relazionali condite da tristezza, rancore, rabbia, paura. Ascolto con pazienza, empatia, accoglienza. Eppure dopo pochi minuti dentro di me parte come un ticchettio: è il conto alla rovescia della fine della relazione. No, non ho nessuna capacità di chiaroveggenza! Ho solo imparato a riconoscere i segnali inequivocabili del “gioco al massacro”.

In un’era dove l’onnipotenza ha superato la fantascienza, dove l’idea di poter gestire, controllare, prevedere è diventata una certezza, la possibilità di costituire delle relazioni “sane” perde sempre di più terreno.

Specifichiamo: per relazione sana non intendo una relazione in cui non si litiga! Per relazione sana intendo l’incontro di due persone consapevoli del funzionamento soggettivo che nell’incontro con l’Altro tengono libertà e rispetto al centro della costruzione. Relazioni in cui la differenza di pensiero possa suscitare curiosità e non giudizio e svalutazione; relazioni in cui l’accettazione intrinseca del rischio, possa non scatenare dinamiche ti possesso, manipolazione dell’Altro per tenerlo a sé. Relazioni in cui ogni soggetto è consapevole dei confini e della differenza tra desiderio e bisogno. Relazioni che non chiudono bensì aprono alla vita, alla crescita, all’evoluzione di ognuno dei soggetti.

Di questi tempi il tema della “dipendenza affettiva” va decisamente per la maggiore. In ambito psicologico, sociologico, antropologico, coaching, prima o poi ci si imbatte in un articolo sul tema. Più o meno i concetti sono sempre gli stessi e ogni professionista cerca di esprimerlo a modo suo. Con questo libro, Relazioni tossiche (qui puoi acquistarlo su Amazon), più che parlare della dipendenza affettiva, cerco di descrivere alcune delle dinamiche più frequenti che si possono mettere in piedi e che, nel tempo, portano esattamente all’opposto di ciò che si desidera: allontanamento e non avvicinamento. Cercando aiuto anche nella letteratura, provo a descrivere delle modalità precise che conducono alla certezza della rottura.

Non è un testo tecnico e forse potrà risultare anche un pò ripetitivo perché alcuni passaggi li ho ripetuti in modalità leggermente differenti nel desiderio di riuscire a spiegarmi bene. Il linguaggio tecnico è ridotto all’osso: utilizzo i riferimenti alla letteratura di Eric Berne con il suo GAB (Genitore, Adulto, Bambino) perché trovo geniale l’idea che l’essere umano sia un condominio e che ogni volta che pensiamo siamo ad una riunione di condominio con i tipici litigi del caso. Tutto nella nostra testa.

Con questo assunto di base, ogni volta che due persone si incontrano (iniziando un qualsiasi tipo di relazione) in realtà si stanno incontrando 16 persone diverse: ognuno porta in sé un Genitore Normativo Positivo, un Genitore Normativo Negativo, un Genitore Affettivo Positivo, un Genitore Affettivo Negativo, un Adulto, un Bambino Libero, un Bambino Adattato e un Bambino Ribelle = otto persone diverse. Ognuna di queste parti ha differenti motivazioni per esprimersi e diventarne consapevoli può aiutarci a comprendere che tipo di relazione stiamo realmente costruendo. Ad esempio, se mi pongo sempre come Bambino Adattato, non mi stupirò di essere trattato come una persona passiva e senza spirito di iniziativa.

Si, perché non c’è una regola fissa nel comportamento che possiamo decidere di adottare, ma una RESPONSABILITA‘. Cioè, posso decidere di andare nel mondo come Bambino Adattato perché da qualche parte mi fa comodo, l’importante è che ne conosco le derive e le accetto senza poi lamentarmi delle conseguenze dirette. La felicità deriva dallo scegliere consapevolmente come si vuole vivere e dalla possibilità di accettare il fatto che non si può piacere a tutti.

Scrivere questo testo ha risposto al desiderio personale di poter essere utile in questo processo.

Buona lettura

Puoi acquistare il libro su Amazon, lo trovi qui.

La relazione di coppia nella disforia di genere: un’indagine Rorschach con le partner di FtM

In questa epoca fluida, sorgono nuovi quesiti anche in ambito scientifico. Una persona a termine di transizione può trovare un partner con il quale avere una relazione soddisfacente? Che modalità relazionale si instaura tra una donna che si percepisce eterosessuale ed una persona FtM?(1) Come mai una donna che si percepisce eterosessuale sceglie come compagno un FtM?

Questi, tra i vari, i quesiti che hanno motivato questa ricerca.

Il tema del genere è un tema molto complesso. Maschile-femminile sono due termini diventati insufficienti per racchiudere tale complessità.

Negli anni si sono succeduti termini come transessualismo, disturbo dell’identità di genere, fino alla più recente definizione di disforia di genere.

per quanto il linguaggio tenti di descrivere questa via tortuosa dell’esistenza, non potrà mai esserne all’altezza.

Questo è un lavoro che spero possa divenire uno studio pilota per continuare ad approfondire il tema nel futuro. Non ha la pretesa di offrire risposte, ma solo il desiderio di offrire punti di riflessione derivanti da ciò che è emerso con l’utilizzo del Test di Rorschach, osservazioni sul campo, confronti con altri lavori simili e soprattutto incontri clinici con i soggetti.

Buona lettura

(1) FtM: acronimo con il quale si identifica un soggetto geneticamente femminile che transita ad un corpo maschile.

Rorschach nuova taratura italiana e tavole di localizzazione

Chi lavora con il Test di Rorschach sa quanto sia importante poter avere una taratura aggiornata. Il nostro team ha iniziato a soffrire di un aggiornamento ormai troppo datato e questo ci ha spinti ad iniziare un’opera veramente titanica. Il lavoro di ricerca è durato circa cinque anni e finalmente approda ad una pubblicazione CIFRIC per la fruizione di tutti i colleghi che desidereranno interfacciarsi con una taratura aggiornata.

All’interno si trovano tutte le nuove tavole di localizzazione con le percentuali aggiornate. Il tutto con la metodologia di siglatura CIFRIC.

Buona consultazione

Le tecniche proiettive nella pratica clinica: cornici e contesti

I test proiettivi sono forse tra gli strumenti più “antichi” della pratica psicologica. Ancora una volta si parla in questo testo di come l’utilizzo dei proiettivi possa coadiuvare e sostenere un processo di psicoterapia.

All’interno di questo libro, a cura di Gabriella Gandino e Doriana Di Paola, edito da EUR nel 2022, c’è il mio intervento con l’ausilio dei test grafici. Potrete trovare la trascrizione di un caso in cui ho utilizzato il Test della persona sotto la pioggia per aiutare la donna che seguivo alla possibilità di cambiare la prospettiva iniziale rispetto alle sue risorse.

Il test, durante la pratica clinica, prende vita. non si ferma al disegno della persona sotto la pioggia, bensì prosegue con successive modificazioni elicitate da interventi terapeutici, al fine di trovare una dimensione che risulti contenitiva e rassicurante alla percezione dello stesso paziente.

Buona lettura

Un giorno in seduta con Claudia Giampieri

un esempio di utilizzo delle tavole Rorschach durante una seduta

 

Cosa aspettarsi da un incontro di psicoterapia? Cosa aspettarsi da un terapeuta?

Gli incontri con me sono molto variegati perché la mia formazione integrata mi consente di spaziare tra varie tecniche a seconda di ciò che sento mi possa essere utile per aiutare una persona. Spesso mi sono accorta di essere percepita “meno terrificante” dell’immaginario. Questa cosa mi ha spinta a organizzare delle simulate di terapia, svolte con l’auto di attori professionisti, per mostrare come potrebbe essere un incontro con me.

Al mio canale you tube potrete vederne il primo esempio.

Buona visione

IstantiDistinti

istanti distinti Claudia Giampieri

Istanti distinti

Il tempo è una dimensione ipotetica atta a misurare il trascorrere degli eventi. Da sempre il costrutto è oggetto di riflessioni sia filosofiche che scientifiche.
Desidero posizionarmi nell’ambito psicologico per formulare alcune riflessioni in merito.

“L’autorealizzazione è possibile solo se la consapevolezza del tempo e dello spazio penetra ogni angolo della nostra esistenza; fondamentalmente essa è il senso dell’identità, l’apprezzamento della realtà del presente” (F. Perls, L’io la fame l’aggressività)[1]

Uno dei concetti cardine della Psicoterapia della Gestalt è il radicamento nel qui ed ora ottenuto grazie alla chiusura delle situazioni inconcluse (chiusura delle forme).
Se non subiamo interferenze per situazioni irrisolte, disponiamo di tutte le nostre energie per entrare autenticamente in contatto con l’ambiente in cui ci troviamo ed essere perfettamente funzionali rispetto al ciclo di contatto soggettivo.
In definitiva, il tempo presente non è altro che un ciclo continuo di Istanti nei quali dover entrare in contatto con le sensazioni che emergono dal nostro interno per poter rispondere ad esse in modo funzionale.
Quando questo processo è in atto tra due persone differenti che comunicano, si ha l’incontro di due distinti cicli di contatto. Quando questi due distinti cicli sono in reale contatto nel proprio istante, può avvenire un incontro realmente autentico e intimo dal quale può scaturire una crescita evolutiva in cui ognuno dei due soggetti è di ispirazione all’altro.
Quanto descritto potrebbe essere considerato un incontro “ideale” nel senso di privo di contrasto interno ed esterno. In definitiva il punto in cui poter indirizzare un progetto di psicoterapia.
Istanti distinti è infatti la definizione che ho scelto per il mio lavoro riflettendo sulle parole che potessero racchiudere in estrema sintesi ciò che cerco di fare nei viaggi con le persone che mi chiedono aiuto.

Cosa accade quando non si vive pienamente nel presente e in relazioni caratterizzate da simbiosi, proiezioni, bisogni?
Quando il tempo è percepito come infinito o dilatato e non come una catena di istanti, si possono lasciare forme aperte, situazioni sospese, progetti inconclusi, decisioni procrastinate all’infinito, senza accorgersi che questa condizione genera una tensione profondissima che si trasforma prima in ansia e successivamente in angoscia.
Umberto Galimberti sottolinea come sia fondamentale realizzarci come individui unici, ognuno con la propria specificità, puntualizzando come una vita figlia del nostro demone[2] non ha prezzo e diventa come un progetto andato a buon fine. Ha un retrogusto inconfondibile e lascia un buon sapore in bocca. Una vita sprecata è un insulto alla ragione.
Poi c’è l’altro punto, la possibilità di essere distinti, avere dei confini netti, un’individualità che percepisce i propri desideri senza esserne schiacciata come se fossero bisogni, che può mettersi in relazione con l’esterno libera dalla spinta predatoria di possedere, controllare, inglobare l’Altro da sé.
Se lavorare sul tempo, sulla percezione del qui ed ora investito di gioia e benessere può ancora risultare non troppo ostico (certo esistono individui che non accettano proprio di essere mortali, ma non sono poi così numerosi), altra difficoltà è accogliere l’importanza del confine dall’altro, il valore dell’essere distinti.
Nel tempo della mia professione clinica ho verificato quanto sia difficile accettare di non abitare più l’utero di nostra madre o di ricercarlo strenuamente se si percepisce di non averlo abitato abbastanza. Anche coloro che si professano ribelli per reazione all’ invasione di una madre (ma anche da un padre) eccessivamente simbiotica e richiedente, in realtà hanno concorso alla costruzione di un rapporto fusionale.
Ogni volta che non accetto un “no” come risposta, ogni volta che cerco una forma di rassicurazione dell’amore dell’Altro, ogni volta che proietto il mio sentire, il mio pensare sull’Altro, ogni volta che anticipo una richiesta, che saturo ogni spazio mentale o affettivo, sto disperatamente cercando di ri-costituire l’habitat uterino: quel luogo così caro privo di tensioni e responsabilità, dove tutto esiste senza chiedere…
Com’è forte la tentazione di rimanere infanti e deresponsabilizzati!
Eppure qui dimora la maggior quantità di malessere, di energia tossica, di carburante per la formazione di sintomi.
La separazione genera un’illusione di angoscia perché non si guarda bene il prezzo che già si sta pagando nel dimorare ancora nella dimensione dell’indifferenziazione. Siamo disposti a convivere ancora con l’oppressione, con il fastidio generato dal controllo, pur di conservare la fantasia che quella sia l’unica forma possibile di ricevere amore.
Il paradosso della formazione psichica di un individuo, a mio avviso, sta nel dover costituire un Ego funzionale alla separazione dall’Altro, al processo di individuazione, per poi doverlo distruggere in quanto origine di tutte le ferite psicologiche. Una fatica immane.
Per questo molto spesso si pensa sia più semplice rimanere nella cosiddetta “zona di confort”.
Ciò che non ci è chiaro è che rimanendo nell’utero (la zona di confort non è altro che questo) in realtà non stiamo vivendo, ma solo sopravvivendo in attesa della morte.
Distinguersi dai propri genitori, darsi il permesso di essere perfettamente in contatto con ciò che si sente, liberarsi di richieste ataviche e di divieti insulsi, per poter vivere lo stesso processo che si osserva nella trasformazione di un bruco in farfalla. Da questo anche la scelta di questa immagine.

Da queste riflessioni nasce la scelta del logo dello Studio di Psicoterapia Claudia Giampieri: un oggetto che racchiude in estrema sintesi tutto ciò che cerco di promuovere nei miei incontri con chi mi chiede aiuto, che possa richiamare l’idea del progetto di ricostruzione di una personalità maggiormente equilibrata e centrata sulla propria autonomia psicoaffettiva.
Istanti distinti è un luogo dove si promuove la consapevolezza del tempo reale fatto di continue catene di singoli attimi presenti per poi proseguire alla costruzione di un’individualità auto-definita e separata dalla famiglia di origine.
Scoprire come poter progettare la propria esistenza in massima libertà di espressione, potendola orientare alla chiusura dei progetti, alla capacità di portarli a termine.
I colori scelti per l’immagine richiamano la compresenza di colore e buio, di luce e ombra che così bene ci caratterizzano in ogni istante.

 

D.ssa Claudia Giampieri

Psicologa Clinica, Psicoterapeuta, esperta Psicodiagnosta

Docente CIFRIC, collaboratrice iGAT, socia AIR

C.F. GMPCLD64A46A271M

P.I. 08879461211

Ord. psicologi Campania sez.A n°4920

Sedi:

Via Tasso, 91   Napoli

Via Cesare Balbo, 43   Roma

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mobile: 335.6138269

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L’opera di Fritz Perls si sviluppa negli Stati Uniti a partire dagli anni ’50 andando a creare il modello di riferimento  della terapia della Gestalt, non solo come approccio alla Psicoterapia, ma anche come stile di vita. Il punto cardine nel concetto di consapevolezza implica una componente non solo intellettiva, ma anche immaginale, emozionale e sensopercettiva. Noi siamo noi stessi in ogni gesto, in ogni azione e anche in ogni menzogna e in ogni interruzione autoimposta. Nel concetto esposto da Perls, l’importante è acquisirne consapevolezza, appropriarci responsabilmente di chi siamo e di cosa facciamo.

[2] Aristotele definisce la felicità come autorealizzazione di sé stessi: ogni uomo è fornito di una vocazione, di un’inclinazione che Aristotele chiama daimon. In greco la felicità è eudaimonia “la buona realizzazione del tuo demone”.

L’angoscia del “fermo-tempo”

Cosa ci accade quando siamo costretti a fermarci?  Quando non possiamo mantenere il ritmo frenetico che cadenza il nostro tempo? Quando non possiamo più scappare da noi stessi?

Da bambina ricordo settimane intere trascorse nell’isolamento forzato imposto da nevicate che bloccavano tutto per giorni: la sensazione era quasi da “post guerra”. Nessun contatto se non quello dei miei familiari e al massimo qualche telefonata alle amichette. Poi ci sono state le epidemie di pidocchi, il terremoto, l’Austerity e mille altre condizioni che portavano alla chiusura delle scuole e all’isolamento. Credo di aver passato la mia infanzia più a casa che a scuola, almeno fino alle elementari.

Dopo qualche attimo di disorientamento e di frustrazione, salivo in soffitta, il mio luogo magico.

Perdermi nei miei sogni segreti tra carabattole antiche di ogni genere permetteva a quel tempo immobile di trasformarsi in un viaggio fantastico. La soffitta era il mio “armadio di Narnia”: poteva accadere di tutto.

Oggi mi accorgo di essere sempre stata una privilegiata: in questi giorni difficili dettati dall’emergenza del corona virus, scopro di non aver perso quella capacità di gettarmi con gioia nel mio personalissimo mondo interiore. Di potermi adattare all’isolamento, di poter godere della mia coppia e del clima che ho costruito nella mia casa. Di poter rinunciare anche a mangiare le cose che amo di più perché sono finite in dispensa e scoprire che qualche chilo in più mi consentirà di sopravvivere molto (molto!!!) a lungo. Finché c’è acqua in casa e una sana scorta di farine, non c’è problema.

Non ho più una soffitta (purtroppo) ma ho i libri, la scrittura, le mie cartelle di foto sempre in attesa di essere organizzate, le piante del terrazzo, il pane da poter preparare…ma soprattutto il mio istintivo allenamento alla capacità di auto-intrattenermi, di adattarmi, di “non dare fastidio”.

I problemi insorgono se non ci siamo allenati a stare con noi stessi e se non lo abbiamo insegnato ai nostri figli. Le famiglie in difficoltà, in questi giorni, sentono il peso di intrattenere i bimbi, la difficoltà a stare nel nido con il/la proprio/a compagno/a, l’angoscia di non produrre denaro…

La costrizione alla condizione di “quarantena” (che poi quarantena non è perché nella democrazia non si può imporre di chiudersi in casa) ci sta dando una grande occasione: guardare bene la nostra vita, dentro e fuori al nostro cuore. Poter sentire se ciò che ci siamo costruiti è ciò che amiamo veramente e soprattutto se siamo capaci di ritornare a sentire il nostro singolo respiro.

In definitiva può essere trasformato in una sorta di ritiro meditativo in cui esercitiamo la capacità di stare nell’assenza del “rumore” della vita, in cui possiamo passare del tempo con i nostri bambini, in cui possiamo raccontare e spiegare l’impermanenza della vita, la sua pericolosità il suo non essere solo “bella, divertente, scontata”. Esercitare l’arte della pazienza e dell’attesa, come i pescatori in tempi magri.

Tra i tanti pensieri saggi e profondi che mi tornano alla mente, oggi c’è quello di uno dei miei Professori più amati, Umberto Galimberti:  “In occidente sembriamo esserci dimenticati che non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché dobbiamo morire”.

Il punto cruciale di queste, tutto sommato, rare condizioni di vita è che sono da osservare come un costrutto complesso, che si dipana su più fronti, che ha almeno tre focus differenti: la gestione sociale della cosa, l’aspetto economico e la dimensione personale.

E’ ovvio che in tempi di democrazia non si possa immaginare di ricevere ordini restrittivi in toto, e al contempo è anche abbastanza folle vedere come si desideri negare lo spessore del problema.

Io non sono un’autorità e ho solo deciso di esprimere il mio pensiero nella speranza di poter ispirare qualcuno tra le persone che mi leggeranno.

Spero di potervi ispirare soprattutto nel recuperare “L’Ars moriendi” perché nascita, malattia, vecchiaia e morte sono tutte parti equanimi della vita che sicuramente non è solo un inesorabile e triste destino, né tanto meno una giostra inesauribile di leggerezza.

Imparare a fluire tra il dentro e il fuori, tra la velocità e la lentezza, tra l’opulenza e la ristrettezza ci consente di imparare bene che non possiamo controllare nulla mentre impariamo a rispettare l’Altro e il suo spazio vitale, ad abitare l’angoscia provocata dal “non definito” trovando delle soluzioni “finite” che ci consentano di costruire saggezza.

Detto ciò, spero che potremo presto tornare a toni più leggeri e nel mentre…

Buon viaggio verso la vostra Narnia!

 

 

Il dolore nell’approccio gestaltico: istruzioni per l’uso

Prima di cercare la guarigione di qualcuno chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo fanno ammalare. (Ippocrate)  

Ippocrate aveva capito tutto. Non si può aiutare nessuno che non voglia davvero essere aiutato.

Inizierò con il racconto di una seduta molto interessante.

  1. arriva affranto raccontandomi di essersi bruciato un polso in maniera molto seria. Noto subito che ha la pelle classica da “bruciatura da ferro” e che sopra (esattamente sulla bruciatura!) ha indossato il suo orologio da polso. Continuo ad ascoltare tutto il suo sfogo che rimane incentrato sul senso di inadeguatezza, di frustrazione, di vittimismo, senza nessun tipo di reazione emotiva. A un certo punto M. dice: ”capitano tutte a me perché mi merito una punizione, perché non sono perfetto e forte come dovrei!”
    Qui intervengo chiedendogli come mai ha indossato l’orologio. Lui stupito mi chiede che cosa c’entri la mia domanda. Io gli rispondo che mi colpisce il fatto che lo stia indossando sul polso malato e dolorante e gli chiedo nuovamente come mai. M. si irrita e mi dice che non poteva fare a meno di indossare l’orologio!
    Bene, rispondo io, ma non potevi tenerlo in tasca o indossarlo all’altro polso?
    Ecco, qui il viso di M. (un macho di circa 50 anni) si sfigura prendendo le sembianze di un bimbo di 3 anni. Colto dallo stupore e dalla meraviglia mi dice: “cazzo, non ci ho proprio pensato!”

Perché se sento dolore non faccio nulla per liberarmene? In che modo il mio cervello mi consente di continuare a “resistere” nonostante io mi lamenti? Perché diventa quasi più semplice arrendersi, o immaginare di non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose piuttosto che buttarsi a capofitto nella ricerca di una soluzione, di un cambiamento?

Per prima cosa vorrei provare a fare un gioco di immaginazione con voi tutti. Immaginate di essere stati esposti ad un gelo incredibile che vi ha portato un dito in cancrena. Vi recate in ospedale per chiedere di aiutarvi e subito vi dicono che si deve amputare immediatamente il dito perché si rischia la cancrena di tutta la mano.
Cosa provate a livello emotivo? Immagino che vi sentiate angosciati, pieni di orrore e che state pensando che non ne volete sapere di farvi tagliare il vostro meraviglioso dito, anche se in cancrena.
Immaginate quindi di tronare a casa e di trascorrere altri giorni senza fare nulla finché la cancrena coinvolge la mano. Vorreste chiedere aiuto, tornare in ospedale o rivolgervi a un medico, ma il terrore di sentirvi rispondere che si deve amputare la mano per intero vi blocca.
Così il tempo passa finché tutto il braccio va in cancrena e siete costretti a cedere perché a questo punto rischiate la vita.
Morale: invece di aver perso un dito, avete perso tutto un braccio.
Ora facciamo un’altra ipotesi. Immaginate che, arrivando in ospedale con il dito in cancrena, vi dicano che tagliandolo subito, ne crescerà un altro ancora più bello e più funzionale di prima: pelle liscia, unghia perfetta, articolazioni elastiche…
Cosa provate ora a livello emotivo? Provo ad azzardare che sia qualcosa di simile a curiosità se non proprio gioia. Entusiasmo, speranza, elettricità prendono spazio per spingervi immediatamente all’intervento.
Morale: non avrete un dito nuovo, ma sicuramente avrete ancora tutto il braccio e scoprirete presto nuovi modi per usare questa mano nuova.

Il punto cardine di queste riflessioni in cui ho scelto di spingervi è che si tende a preservare ciò che si conosce, anche quando non ci piace. Perché è familiare.
Se ad esempio sono cresciuto in un ambiente in cui ho ascoltato spesso frasi tipo “eh, brutta la vecchiaia: con il tempo arrivano capelli grigi e dolori”, “siamo nati per soffrire!”, “non fare come la zia zoppa” (la nonna pazza, la cugina anoressica, il nonno cieco…) può scattare un meccanismo molto nascosto attraverso il quale ci si identifica con il dolore, o la malattia o la sofferenza. Spesso fino a diventare qualcosa di simile a “soffro, dunque esisto”.
Pensate al detto “ho le farfalle nello stomaco” che a volte si sente usare quando una persona è innamorata. Spesso diventa il parametro per stabilire se si è o non si è innamorati del proprio partner (in realtà è un eccesso di adrenalina, che ha i giorni contati perché il corpo non può resistere ad eccessi per un tempo troppo lungo) e nel tempo questa condizione fisiologica viene ricercata come sinonimo di benessere affettivo, quando in realtà è una difficoltà fisica manifestata dallo stomaco.
Un altro elemento che può spiegare la scelta (seppure inconsapevole) dello stato di dolore è il divieto antico di piangere o lamentarsi. Se da piccolini ogni volta che ci si sbucciava un ginocchio e si piangeva, si veniva rimproverati perché ci si stava lagnando senza motivo (svalutazione del sentire altrui), ci si è trovati nella condizione necessaria di reprimere la sensazione di dolore. Dato che il dolore è realmente percepito, la frustrazione di non essere capiti genera un sentimento d’angoscia e di pericolo: non c’è nessuno che mi aiuta a contenere, capire, prendermi cura di ciò che provo. Io non vado bene, sono un debole, quindi è meglio se nascondo e imparo a non sentire (come nel caso del paziente con l’orologio sul polso bruciato).
In questi casi si arriva a livelli simili del “CIPA” (acronimo di Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis, Insensibilità Congenita al Dolore con Anidrosi) conducendo ben presto la persona tutta in condizioni di accumulo esplosivo. Questo vale sia per la rabbia inespressa, sia per dolori fisici che non mi consento di percepire, come in una sorta di ipnosi autoindotta. Finché non diventa più possibile trattenere, contenere, nascondere.
In letteratura molti autori hanno ipotizzato che esista una sorta di “patto di sangue” non scritto per appartenere ad un nucleo familiare. C’è chi ne parla in termini di copione familiare (E.Berne) per spiegare che ogni individuo appena nasce deve rispondere ai requisiti richiesti dal resto del nucleo che lo accoglie; chi in termini di sistemi cibernetici omeostatici (B. Hellinger con le costellazioni familiari). Per questi autori, il focus del lavoro terapeutico va impostato sull’acquisizione della consapevolezza dei propri vantaggi reconditi.
Per fare un esempio molto semplice, se i miei genitori in qualche modo mi hanno fatto capire che apprezzano la compiacenza e i sorrisi, tenderò a compiacere e sorridere anche quando sento rabbia perché questo è il vantaggio di continuare ad appartenere a quel tipo di famiglia, con quelle regole/valori. Il dramma è che essendo cresciuti così, sentiamo che tutto è “normale” e se ci viene il mal di testa è perché magari ho dormito troppo poco.
In altri casi il vantaggio può essere l’aver sperimentato di poter ricevere attenzioni e carezze solo quando si è malati.
In altri ancora si può essere registrato un giudizio negativo nei confronti della “leggerezza” che nel tempo conduce al bisogno di “drammatizzare” tutto per poter pensare di sé stessi di avere uno spessore.
Beau Lotto, neuroscienziato dell’University College di Londra, ricercatore nell’ambito delle percezioni, suggerisce di considerare “il nostro cervello come l’incarnazione fisica degli automatismi percettivi dei nostri antenati (B. Lotto, “Percezioni”, Bollati Boringhieri, 2017, pp.15). L’autore accorda a questi automatismi la responsabilità piena di molti dei nostri problemi.
Qui ho un altro aneddoto molto esplicativo. Un giorno una paziente mi raccontò di essere molto arrabbiata con la madre perché dopo generazioni intere aveva scoperto il perché del rituale del tacchino del ringraziamento. Da sempre prima di infilarlo nel forno si doveva tagliare una fetta a destra e una a sinistra. Più volte era stato chiesto spiegazione di questo gesto alla madre, alle zie, alla nonna, ma sempre era stato risposto “non so, si è sempre fatto così!”. Finché quella settimana, si era trovata a parlare della cosa in presenza di un prozio che ridendo ha commentato: “Ma era solo perché avevano il forno troppo piccolo! Oggi con i forni così grandi non serve più!”

Morale: sempre bene coltivare creatività, curiosità, elasticità mentale!

Cosa fare alla luce di tutto ciò?

Per quanto sia un’idea folle, proverò a tracciare una sorta di mappa di orientamento, che possa risultare utile nella vita pratica.

Primo esercizio

  • Scrivi con attenzione tutte le frasi ricorrenti che ricordi di aver sentito nella tua famiglia, che riguardassero il dolore (sia fisico che emotivo)
  • Scrivi cosa ti rispondevano o come reagivano ogni volta che piangevi
  • Fai una lista di tutte le persone che compongono la tua famiglia, dai nonni in poi e scrivi a fianco i loro sintomi rispetto al dolore (sia fisico che emotivo) e le modalità con le quali hanno vissuto la cosa.
  • Chiediti cosa devi fare per appartenere profondamente alla tua storia familiare? Cosa non ti è concesso assolutamente? Che cosa non ti perdonerebbero mai?

 

Successivamente, osserva quanto hai scritto e chiediti in che modo tutto ciò influenza oggi la tua vita.

Secondo esercizio

Per questo esercizio è necessario che tu non bari!!! Devi seguire lo step senza guardare il secondo passaggio.

Scrivi una lista di almeno 10 frasi che inizino con “io non riesco…….”

Ci sei?

L’hai completata?

Fai ancora uno sforzo, 6 sono poche, devi arrivare almeno a 10!

Bene.

Ora leggi tutte le frasi che hai scritto lentamente. Ascolta cosa provi. Poi prendi la penna rossa e cancella il verbo “riesco” e al suo posto scrivi “voglio”.

Ora le tue frasi dicono cosa tu “non vuoi”. Rileggile tutte con attenzione e prova a sentire quale fa più stridore, o dolore, o rabbia. Quale risuona di più.
Ultimo passaggio: chiediti quale potrebbe essere il vantaggio nascosto, profondo, che ti ha condotto a “non volere” quella cosa.

Se sarai sincero con te stesso, potrai scoprire cose interessanti.

Terzo esercizio

Chiudi gli occhi, prendi contatto con il respiro, cerca di rilassarti più che puoi. Quando ti sentirai abbastanza rilassato, cerca di immaginare di diventare tu stesso/a il tuo dolore. Chiediti che forma hai, se hai un odore, un colore. Al tatto come risulti? Quando ti senti abbastanza identificato, inizia a descriverti, senza aprire gli occhi e a presentarti. Quando avrai finito di presentarti spiega al “te” che ti è di fronte, che cosa sei venuto a fare, che cosa vuoi dirgli, cosa deve fare affinché tu possa lasciarlo/a in pace.

 

Buon divertimento, Buona vita!