Rabbia e Aggressività: litigare è bene o male?

 Se state leggendo questo articolo potreste avere un rapporto contrastante con la rabbia. O forse siete solo curiosi.

Prima di tutto vorrei spezzare una lancia a favore di questa emozione, così spesso denigrata. La rabbia è l’emozione più importante tra le emozioni di base (quelle funzionali alla sopravvivenza della specie). Provate a pensare ad un leone che sta mangiando la sua preda. Improvvisamente ne arriva un altro che vuole rubargli il cibo. Se il leone non sentisse rabbia e non agisse con forza, morirebbe di fame, cedendo a tutti i leoni più prepotenti il suo pasto.

La rabbia è la spia che si accende quando si vive un’ingiustizia e che ci spinge a reagire per difenderci. Osservando le cose in questo modo si può capire subito che la rabbia è la spinta a prendere dal mondo ciò che mi serve (quando è ben canalizzata diventa assertività).

Il problema nasce quando si percepisce come ingiustizia una situazione che non lo è, o quando si pretende di prendere danneggiando qualcun altro agendo comportamenti aggressivi. Infatti, l’aggressività riguarda un comportamento messo in atto per colpire qualcosa o qualcuno. Può essere un comportamento fisico come picchiare o spingere qualcuno piuttosto che verbale come nel caso degli insulti rivolti contro la persona con la quale si è arrabbiati. Chi agisce con aggressività è profondamente svalutante nei confronti dell’altra persona con la quale si sta relazionando.

Ipotizziamo due polarità estreme: persone che dicono sempre di sì, gli accomodanti e persone che dicono sempre di no, gli oppositivi.

I primi non sopportano di trovarsi in situazioni di conflitto e le evitano con tutte le loro forze; i secondi sembra quasi non possano vivere al di fuori di un clima di guerra. Solitamente i primi sono più “gettonati” perché gli attaccabrighe risultano fastidiosi.

L’unica cosa sensata che si può affermare subito è che in entrambe le posizioni esiste un vantaggio, che la persona ne sia consapevole o meno.

Un vantaggio?

Si, esattamente. Tutto quello che cercherò di argomentare da qui in avanti si basa su di un assunto di base (ogni teoria ha bisogno di un punto di partenza per potersi articolare): qualsiasi cosa si faccia o non si faccia, ogni soggetto è “agente”. Anche quando non ne siamo consapevoli, scegliamo tutto ciò che viviamo: siamo tutti costruttori delle nostre vite e ciò che scegliamo deriva da un vantaggio (anche se spesso sembrerebbe non essere così).

Stabilito il punto di riferimento, iniziamo dalla polarità dei compiacenti, gli iper-adattati: che cosa rischiano a dire no? Cosa c’è realmente in ballo? Cosa succede internamente a queste personalità ogni volta che evitano uno scontro? Veramente non si arrabbiano mai?

Le ipotesi sono diverse.

Nel caso peggiore, la persona non avverte proprio il suo personale fastidio. La sua percezione è bloccata sul nascere, non c’è un confine tra la sua persona e l’altro a con il quale si sta relazionando. I meccanismi con i quali la mente opera questa capacità di “astrazione”, di desensibilizzazione, sono diversi. Il risultato rimane che in questi casi non ci troviamo di fronte ad una relazione Io-Tu: i soggetti non sono due ma solamente uno. I compiacenti che non si percepiscono proprio sono completamente spostati sul Tu. Tutto è vissuto in funzione dei bisogni del Tu, e del soddisfacimento di essi. I bisogni dell’Io non vengono percepiti, bensì confusi con i bisogni del Tu. In questo caso il soggetto non si accorge neanche di rinunciare al suo mondo e tutta la relazione con l’altra persona sembra andare benissimo (ad esempio le coppie che non litigano mai).

Quando poi “improvvisamente” la pace esplode, tutti rimangono senza parole.

Cosa è successo?

Proviamo a configurare una storia specifica.

Maria è cresciuta in una famiglia molto severa costruendosi l’idea che se fosse stata buona, ubbidiente, non avesse mai creato problemi avrebbe potuto conquistare l’amore dei suoi genitori. Diventata donna sposa un uomo severo e prepotente con il quale continua a mettere in atto le sue regole dell’infanzia: ubbidire, non dare fastidio, evitare conflitti.

Senza rendersene conto, colleziona all’interno del suo vissuto una serie di frustrazioni dicendosi che è per il bene della coppia e dell’armonia, che è giusto e normale così.

Questo tipo di equilibrio potrebbe anche durare per tutta la vita. Il problema sorge se arriva un evento a disconfermare in modo forte le convinzioni di Maria, ad esempio la scoperta di un tradimento da parte del marito.

Uno dei primi pensieri potrebbe essere: “ma come, io sono stata sempre sottomessa, ho fatto tutto ciò che volevi e così mi ripaghi?”

Delusione, rabbia, paura, dolore, sorpresa, improvvisamente il corpo di Maria sente tutto insieme e la getta nella confusione più totale.

È qualcosa di simile a quando da piccoli ci dicono che Babbo Natale non esiste e che non esiste nessun premio al nostro “essere buoni”.

Maria ha una scelta da compiere: sedersi sulla sedia della vittima e non alzarsi mai più (“povera me, voi non sapete che cosa mi è successo, che cosa ho subito!”) oppure chiedersi in che cosa sia stata co-costruttrice di questo evento.

Attenzione, questo non significa che il marito non abbia la sua parte di responsabilità nella scelta del tradimento!

Il punto è che Maria non può agire su di lui, non può cambiare lui. Può solo guardare a sé stessa e chiedersi se può modificare qualcosa per vivere meglio, per rilanciare la sua esistenza (anche con il marito, certo!).

Una delle ipotesi possibili potrebbe essere che nel momento in cui si sono sposati, a tutti e due piaceva l’idea di avere una relazione genitore/figlio (quando c’è una persona che comanda e una che ubbidisce le posizioni sono queste). Poi nel tempo è “saltata” la sessualità (nella relazione genitore/figlio è facile che si passi ben presto alla possibilità unica della tenerezza) e il primo che ha avvertito la mancanza dell’espressione erotica l’ha cercata fuori dalla coppia.

Torniamo alla domanda iniziale: “litigare è bene o male?”

In questo specifico caso, sarebbe stato un bene incontrare dei momenti di litigio (anche se preferirei chiamarli discussioni) nell’arco della relazione: avrebbero denotato una relazione a due, uno Io-Tu distinti che mantengono il contatto con il proprio sentire e a volte si scontrano. Maria si sarebbe accorta di sentire rabbia quando il marito non le permetteva di prendersi del tempo per sé uscendo con le amiche, si sarebbe espressa con decisione, senza essere aggressiva e forse il marito si sarebbe accorto di avere a che fare con una donna e non con una mamma o con una figlia e forse si sarebbe sentito ancora più attratto da lei.

Certo, è solo un’ipotesi. Ciò che è certo che in questa ipotesi ci saremmo trovati di fronte una persona in contatto con sé stessa, con i propri bisogni e le proprie idee, capace di difendersi nelle situazioni di ingiustizia e di prendere il suo spazio nel mondo.

Passiamo agli oppositivi, quelli che dicono sempre di no e hanno bisogno di svalutare sempre l’altro.

Queste persone spesso percepiscono l’altro come un nemico e preferiscono stare sull’Io e non rischiare di percepire il Tu. Uno dei possibili rischi che percepiscono è quello di perdersi, di non potersi mettere in discussione per la paura di dover fare i conti con il fatto che non sono perfetti (tranquilli, nessuno lo è!). Di conseguenza il vantaggio, spesso inconsapevole, è quello di mantenere intatta la propria percezione di sé, del proprio valore. Solitamente questi caratteri sostengono tesi del tipo “nessuno può capirmi” o anche “se faccio da solo è meglio, gli altri sono tutti incapaci”. Mettersi in una posizione superiore, consente di sentire che vanno bene, si difendono dal rischio di sentirsi fallibili.

Nel mondo quotidiano risultano persone “scomode” e spesso fanno fatica ad avere una rete amicale. Spesso non sono consapevoli di “farsi il vuoto intorno” ed entrano in una spirale di contrasti infiniti. Oppure si circondano di persone deboli, facili da manipolare e sottomettere.

Possono essere stati bambini che hanno imparato la modalità bellicosa di confrontarsi in famiglia, o bambini che hanno trovato questa modalità per non essere travolti da una mamma troppo invadente, o anche bambini che hanno letto uno sguardo compiaciuto negli occhi di un papà sottomesso alla moglie.

Potremmo fare molte altre ipotesi, ma la domanda utile è: questa persona è felice? Quando dice “no” è perché è veramente ciò che pensa? Oppure a volte rinuncia a qualcosa pur di mettersi in contrasto?

Facciamo un esempio specifico.

Marco adora i concerti rock. Marco ha un fratello, Giulio, con il quale non va d’accordo. Per Marco la cosa più importante è potersi distinguere da Giulio che considera un imbranato. Un giorno Giulio gli dice di avere avuto in regalo due biglietti per un concerto rock fantastico gli chiede se vuole andare con lui. Marco gli dice di no, aggredendolo verbalmente per aver pensato che potesse farsi vedere in giro con lui e rischiare così di farsi deridere da tutti.

Marco ha veramente scelto ciò che desiderava?

È anche possibile che Marco consideri un’”ingiustizia” il fatto che dei biglietti per un concerto che aveva fatto il tutto esaurito da mesi siano finiti nelle mani del fratello anziché nelle sue! E questo senso di “ingiustizia” potrebbe spingerlo a rubarglieli di nascosto (azione aggressiva che danneggia Giulio).

In questa storia c’è un’ingiustizia?

La sera del concerto Giulio apre il cassetto per prendere i suoi biglietti e non li trova. Dopo averli cercati per tutta la casa si deve arrendere e rinunciare al concerto. Durante la serata Giulio vede dei selfie di Marco su Instagram: è al concerto con un amico. Si rende conto che i suoi biglietti sono stati trafugati dal fratello. Sente la rabbia salire al collo e il cuore aumentare i battiti.

Che reazione pensate dovrebbe avere Giulio? Che cosa vi aspettate che faccia?

Dipende da che tipo di dialogo interno si attiverà, che cosa Giulio dirà a sé stesso:

  • Meglio che lascio perdere, altrimenti chissà che altra angheria mi propina: tanto vince sempre lui! (Giulio si sente inferiore e teme Marco. Non farà nulla)
  • Ma vedi questa carogna che cosa è stato capace di fare. È senza speranza, appena torna gli rompo la faccia di pugni.
  • Sono un cretino! Lo sapevo che Marco è una carogna e non mi posso distrarre mai: dovevo nascondere i biglietti, anzi dovevo proprio lasciarli tenere al mio amico.
  • Sono veramente arrabbiato. Questa cosa non è giusta. Capisco che anche Marco avesse voglia di andare al concerto e capisco anche che non volesse venire con me. Avrebbe potuto dirmelo e chiedermi se fossi disposto a cedergli i biglietti. Appena torna lo voglio affrontare per a trovare il modo di essere risarcito dal danno.

Quale di questi dialoghi interni secondo voi è quello migliore e perché?

Dal mio punto di vista è l’ultimo perché vede Marco e Giulio in una posizione di parità. Nessuno dei due è un perdente a prescindere. Giulio riesce a vedere che il fratello possa avere desideri simili e accettare che non desideri la sua compagnia. Sente rabbia per l’ingiustizia (vera) subita e decide di canalizzare la sua rabbia facendola diventare assertività: lo affronterà e si farà risarcire in una modalità che sentirà giusta. Non ha bisogno di svalutare il fratello per sentirsi forte delle sue ragioni. Decide semplicemente di tutelare sé stesso senza danneggiare Marco in nessun modo.

Potremmo continuare all’infinito con esempi di mille tipi. In definitiva la risposta univoca è che litigare è un bene nel momento in cui si abiti una posizione di rispetto e parità di potere. Essere in contrasto di vedute è una cosa sana. Cercare di sopraffare l’altro è aggressivo. Non entrare mai in contrasto è codardia o inconsapevolezza dei propri bisogni.

Se si conosce bene la rabbia, se si scopre come funzioniamo, si può canalizzarla facendola diventare il nostro più grande motore, senza danneggiare mai nessuno.

 

 

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