Cosa sono le emozioni? A che cosa servono? Sono segno di debolezza o di forza? Si possonocontrollare?
Questi i quesiti più frequenti che incontro nella mia professione di Psicoterapeuta, che mi invogliano ad una rivisitazione del concetto di spontaneità.
Sono molti gli esempi che in letteratura si sono occupati del problema dell’autenticità e dell’ambiguità della natura umana. Da Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, al Il sosia di Dostoevskij, l’ Amleto di Shakespeare fino a Luigi Pirandello, che ha fatto del rapporto tra finzione e realtà un aspetto centrale della propria poetica.
In ogni caso il concetto di autenticità è molto antico ed è stato motivo di riflessione sia sul piano filosofico che su quello psicologico.
Per Kierkegaard esiste una terza possibilità: darsi alla vita religiosa, ma questo vorrebbe dire rinunziare totalmente al mondo.In filosofia lo ritroviamo nell’opera di S. Kierkegaard, che nel suo scritto Aut-aut (1843), polemizzando con Hegel, afferma che non è sufficiente indicare all’individuo una vita sociale ben ordinata (famiglia, società, stato) se non si tiene conto dei problemi specifici del singolo. Nella vita reale, infatti, l’uomo è costretto a fare continue scelte tra autenticità e conformismo che possono essere simbolicamente ben rappresentate dalla possibilità del matrimonio. Bisogna sposarsi o non sposarsi? Essere come Don Giovanni e darsi alla ricerca continua di nuovi piaceri senza essere mai soddisfatto, oppure divenire un buon marito e dedicarsi a una vita coniugale, borghese e tranquilla, socialmente accettato, ma vittima della noia?
Altri autori che si sono occupati di questo argomento dal punto di vista filosofico sono stati Martin Burber che ha elaborato il concetto di uomo autentico (1923), e del pragmatico Hans Vaihinger (1967) che ha sostenuto la dipendenza dei valori intellettuali da quelli vitali.
In psicologia la problematica dell’autenticità è stata affrontata inizialmente da un punto di vista psicoanalitico.
Sigmund Freud, nel Caso clinico del presidente Schreber (1910) descrive, attraverso questo soggetto, una parte lucida della personalità (che gli permetteva, pur con dei limiti, di far fronte ai suoi compiti di Presidente della Corte d’Appello) e una parte ricostruita, che gli consentiva di vivere in un mondo delirante e deformato, ma pur con una speranza di guarigione.
Ancora più chiaro è il riferimento all’autenticità nell’opera di Helen Deutsch che descrive unapersonalità come se (1934) in persone che dietro un apparente facilità nel mettersi in relazione nascondono un profondo vuoto interiore che produce negli altri l’impressione di una mancanza di spontaneità e un senso di falsità. Essi non sarebbero capaci di una vera e propria identificazione (cioè di rivivere in sé e assimilare i modelli altrui facendoli propri), ma solo di un’imitazione superficiale non ben integrata con gli stati più profondi della personalità. Tale condizione li costringerebbe, in modo inconsapevole, a modificare di continuo l’immagine che presentano agli altri, aderendo in modo imitativo alle richieste e alle aspettative esterne (ricordano il personaggio di Zelig, l’uomo camaleonte descritto nel film di Woody Allen).
Anche Wilhelm Reich si occupa dell’autenticità umana quando, parlando dell’armatura o corazza caratteriale, evidenzia la funzione protettiva di questa, pur sostenendo che i momenti non caratteriali di rapporto con il mondo esterno, meno frequenti, sono più liberi e aperti. Egli scrive:
Il carattere consiste in un’alterazione cronica dell’Io che si potrebbe definire indurimento. Questa è la base sulla quale il modo di reagire tipico della personalità diventa cronico. Il suo scopo è quello di proteggere l’Io dai pericoli interni ed esterni. Come meccanismo di protezione diventato cronico può essere chiamato a ragione armatura. Armatura significa inequivocabilmente una limitazione della mobilità psichica di tutta la personalità. Questa limitazione è attenuata da rapporti non caratteriali, cioè atipici, con il mondo esterno che sembrano comunicazioni rimaste libere in un sistema per il resto chiuso (Reich 1933, p.187).
Ma l’autore che, a mio parere, più di ogni altro ha colto le profonde implicazioni della problematica dell’autenticità è stato lo psicoanalista e pediatra inglese Donald W. Winnicott, al quale si deve lo sviluppo del concetto di falso Sé.
Winnicott parte dalla constatazione semplice, ma non sempre evidente, che l’assenza di malattie non corrisponde necessariamente a uno stato di salute. Solo la capacità di essere creativi e la sensazione della propria autenticità danno all’individuo il sentimento che la vita vale la pena di essere vissuta. Da questo punto di vista un individuo che vive una crisi esistenziale può essere più sano di quello in cui l’apparente condizione di normalità è sostenuta da un falso Sé (Winnicott 1977).
Per Winnicott il vero Sé origina dalla vita corporea ed è allo stesso tempo fisico e psichico. Esso corrisponde al gesto spontaneo (è il vero Sé in azione), all’idea personale ed è legato al processo primario (Winnicott 1960). Il vero Sé trasmette un senso di esistenza nel proprio corpo e permette di essere creativi, di sentirsi autentici, reali e presenti, di provare piacere.
Al contrario il falso Sé si svilupperebbe durante lo sviluppo infantile come un’organizzazione difensiva della personalità che ha la funzione di proteggere, come un involucro, il vero Sé. Esso deriverebbe dalle insufficienze dell’ambiente infantile (in particolare della funzione materna) e costituirebbe una difesa estrema nei confronti della depressione, avvicinandosi, da questo punto di vista, al concetto kleiniano di difesa maniacale (Winnicott 1960, 1977).
Il problema dell’autenticità e la sua relazione con la salute è evidente nella ricerca psicosomatica, soprattutto quando la capacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni è stata messa in relazione con lo sviluppo delle malattie.
In questo caso il problema centrale è il rapporto che l’individuo ha con le proprie emozioni e con i propri bisogni più autentici. Quando questo rapporto è deficitario gli aspetti più significativi di sé non vengono sufficientemente riconosciuti e comunicati. I conflitti con l’esterno vengono evitati, ma si produce negli altri un’impressione di vuoto, di noia e di inautenticità.
Franz Alexander, uno dei padri fondatori della medicina psicosomatica, aveva già descritto un atteggiamento falsamente autonomo in pazienti affetti da disturbi digestivi nei quali ipotizzava fosse presente uno specifico conflitto di dipendenza-indipendenza, legato a bisogni orali frustrati originatesi nell’infanzia e mantenutisi nell’età adulta. A questo proposito egli descrisse una particolare tipologia di persone pseudo-indipendenti che come reazione ai propri bisogni inconsci di dipendenza svilupperebbe un atteggiamento esasperatamente autonomo e responsabile.
Molti pazienti di ulcera gastrica manifestano apertamente una condotta esageratamente aggressiva, ambiziosa e indipendente, non amano di essere aiutati e si assumono ogni sorta di responsabilità. Si tratta di tipi che spesso hanno funzioni esecutive nel campo degli affari e il cui comportamento rappresenta una reazione al loro desiderio di dipendenza, desiderio tanto forte quanto inconscio; […] L’esistenza di questi desideri spiega il benefico effetto che le cure di riposo e l’allontanamento del paziente dalle continue responsabilità e dalla lotta di ogni giorno hanno in questi casi. Il desiderio di ricevere, di essere amato, di dipendere da altri, quando è respinto dall’Io adulto o frustrato dalle circostanze esterne, e di conseguenza non può trovare la sua soddisfazione mediante le relazioni personali, spesso prende una via regressiva, convertendosi nel desiderio di essere nutrito.
Nella letteratura dell’Analisi Transazionale è stato introdotto il termine emozioni parassite.
Esso è stato usato per indicare due concetti diversi: un processo relazionale e un processo intrapsichico. L’emozione parassita come fenomeno generale si riferisce al meccanismo (sia esterno che interno) tramite il quale una persona manipola l’ambiente o se stessa in maniera da giustificare una sua posizione non OK e arrivare a una specifica emozione negativa che emerge da un processo di svalutazione, sostituisce uno stato d’animo naturale, è al di fuori del qui ed ora ed è una maniera indiretta di ottenere carezze.
In molte famiglie esistono delle regole che inibiscono l’espressione di alcune specifiche emozioni perché considerate socialmente incondivisibili. Ciò conduce un bambino alla sostituzione con sentimenti accettabili dai genitori. Le emozioni richieste nel nucleo familiare che il bambino apprende a sentire e mostrare al posto di altre non ammesse, sono chiamate emozioni parassite.
Il concetto di ciclo di contatto gestaltiano mostra come in una persona sana la tendenza sia di sentire un’emozione, esprimerla, risolvere la situazione che essa genera e muoversi verso qualche cosa d’altro. Si evince quanto sia fondamentale, affinché questo processo possa avvenire, che l’individuo sia in grado di esperire e riconoscere tutta la gamma delle emozioni. Se nell’infanzia un soggetto è arrivato alla conclusione che certi suoi stati d’animo non sono OK, da adulto può non manifestarli o addirittura non essere cosciente di provarli. Ciò conduce necessariamente all’impossibilità di soddisfare il bisogno reale sottostante.
I sentimenti parassiti appaiono manipolatori, sono ripetitivi, stereotipati e mancano di autenticità. La tendenza di ogni individuo è di avere un’emozione parassita favorita, di solito quella che in famiglia è stata rinforzata, che userà in situazioni diverse come modalità sostitutiva per chiedere carezze, invece di chiederle direttamente.
L’A.T. estrapola tre modalità attraverso le quali un individuo apprende le emozioni parassite:
modellamento: il canale è l’esempio pratico dei genitori
condizionamento operante: attraverso i feedback dell’ambiente.
prescrizione: attraverso l’imposizione esplicita dell’emozione sostitutiva con il disconoscimento di quella naturale.
Fanita English chiama parassita quel sentimento del Bambino Adattato che serve a coprire il sentimento proibito del Bambino Naturale. I Goulding lo definiscono come un sentimento al di fuori del qui ed ora. Erksine e Zalcman hanno sintetizzato le varie definizioni di emozione parassita in un modello: Il sistema dell’emozione parassita, sistema distorto che si autorinforza di pensieri, stati d’animo e comportamenti, atto a mantenere stabile il copione psicologico individuale.
Come si può vedere il modello prevede: una doppia contaminazione, meccanismi atti a confermare il sistema opinioni/stati d’animo (giochi psicologici), eventi che comprovano la validità e ineluttabilità delle convinzioni di copione.
In definitiva, quando l’azione sociale del bambino non è accettata dai genitori o è inibita, la Gestalt rimane incompleta (aperta). Se a livello fantasmatico questo evento è posto come base per convinzioni e decisioni di copione, l’emozione che non ha trovato la sua chiusura gestaltica, diventa un’emozione parassita primaria.
Per emozione parassita relazionale, si intende invece l’espressione adeguata dell’emozione che accompagna l’azione sostitutiva/parassita.
Quando l’emozione parassita relazionale non suscita risposte gratificanti, vengono messi in opera giochi psicologici per giustificare assunti del copione. A queste emozioni si è dato il nome di emozioni parassite secondarie.
NATURALI | ||
EMOZIONI | ||
PRIMARIE (connesse alla gestalt incompleta del copione) | ||
PARASSITE | SECONDARIE (connesse al tornaconto dei giochi) | |
RELAZIONALI (connesse ai ricatti) |
Le emozioni naturali sono vissute con lo stato dell’Io Adulto e manifestate con il Bambino libero; sono contestuali allo stimolo in qualità, intensità, e sono riferite al qui ed ora motivando all’azione ed invitando all’intimità.
Le emozioni parassite sono vissute a livello del Bambino o del Genitore e manifestate con il Bambino Adattato; non sono contestuali allo stimolo, sono al di fuori del qui ed ora, sono sostitutive di altri sentimenti, sono manipolative degli altri o di se stessi. Non motivano all’azione, bensì all’autocompiacimento o all’autocommiserazione, all’agito o al richiamo simbiotico.
La persona che vive le emozioni parassite ha un problema fondamentale che è nella confusione tra l’immagine di sé e ciò che è realmente.
Alla luce di tutto questo si può rispondere ai quesiti di partenza in questo modo:
le emozioni sono funzionali al compiere l’azione giusta nel qui ed ora. Controllarle o nasconderle è profondamente dannoso sia per la psiche che per il corpo (se non espresse possono solo manifestarsi attraverso sintomatologie corporee). Se si sente dolore o tristezza, esprimerlo non è affatto segno di debolezza, ma solo di equilibrio e centratura psichica, così come sentire ed esprimere la gioia è altrettanto importante e liberatorio.
Quindi una buona ricetta potrebbe essere seguire questo schema:
cosa sento? → cosa voglio? → cosa faccio? → come mi sento dopo aver fatto ciò che ho deciso di fare? Se e quando siamo perfettamente connessi con la verità di ciò che sentiamo, dopo aver agito ci sentiamo bene. Se ci sentiremo male, significa che nel percorso è avvenuto un intoppo e non abbiamo sentito o espresso ciò che era veramente in noi.
(Dott.ssa Claudia Giampieri)
Bibliografia di riferimento:
Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, tr. Anna Maria Pastore, Cinisello Balsamo, San Paolo ed., 1993.
Freud S., Caso clinico del presidente Schreber(1910), in Casi clinici Bollati Boringhieri ed. 2008.
Deutsch H., Il sentimento assente, Bollati Boringhieri ed., 1992.
Reich W., Analisi del carattere, Sugarco ed., 1994.
Winnicott D., La distorsione dell’io in rapporto al vero ed al falso Sé, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando ed., 2007, pp.177-193.
Moiso C. Novellino M., Stati dell’io, Astrolabio ed., 1982.