Il dolore nell’approccio gestaltico: istruzioni per l’uso

Prima di cercare la guarigione di qualcuno chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo fanno ammalare. (Ippocrate)  

Ippocrate aveva capito tutto. Non si può aiutare nessuno che non voglia davvero essere aiutato.

Inizierò con il racconto di una seduta molto interessante.

  1. arriva affranto raccontandomi di essersi bruciato un polso in maniera molto seria. Noto subito che ha la pelle classica da “bruciatura da ferro” e che sopra (esattamente sulla bruciatura!) ha indossato il suo orologio da polso. Continuo ad ascoltare tutto il suo sfogo che rimane incentrato sul senso di inadeguatezza, di frustrazione, di vittimismo, senza nessun tipo di reazione emotiva. A un certo punto M. dice: ”capitano tutte a me perché mi merito una punizione, perché non sono perfetto e forte come dovrei!”
    Qui intervengo chiedendogli come mai ha indossato l’orologio. Lui stupito mi chiede che cosa c’entri la mia domanda. Io gli rispondo che mi colpisce il fatto che lo stia indossando sul polso malato e dolorante e gli chiedo nuovamente come mai. M. si irrita e mi dice che non poteva fare a meno di indossare l’orologio!
    Bene, rispondo io, ma non potevi tenerlo in tasca o indossarlo all’altro polso?
    Ecco, qui il viso di M. (un macho di circa 50 anni) si sfigura prendendo le sembianze di un bimbo di 3 anni. Colto dallo stupore e dalla meraviglia mi dice: “cazzo, non ci ho proprio pensato!”

Perché se sento dolore non faccio nulla per liberarmene? In che modo il mio cervello mi consente di continuare a “resistere” nonostante io mi lamenti? Perché diventa quasi più semplice arrendersi, o immaginare di non poter fare nulla per cambiare lo stato delle cose piuttosto che buttarsi a capofitto nella ricerca di una soluzione, di un cambiamento?

Per prima cosa vorrei provare a fare un gioco di immaginazione con voi tutti. Immaginate di essere stati esposti ad un gelo incredibile che vi ha portato un dito in cancrena. Vi recate in ospedale per chiedere di aiutarvi e subito vi dicono che si deve amputare immediatamente il dito perché si rischia la cancrena di tutta la mano.
Cosa provate a livello emotivo? Immagino che vi sentiate angosciati, pieni di orrore e che state pensando che non ne volete sapere di farvi tagliare il vostro meraviglioso dito, anche se in cancrena.
Immaginate quindi di tronare a casa e di trascorrere altri giorni senza fare nulla finché la cancrena coinvolge la mano. Vorreste chiedere aiuto, tornare in ospedale o rivolgervi a un medico, ma il terrore di sentirvi rispondere che si deve amputare la mano per intero vi blocca.
Così il tempo passa finché tutto il braccio va in cancrena e siete costretti a cedere perché a questo punto rischiate la vita.
Morale: invece di aver perso un dito, avete perso tutto un braccio.
Ora facciamo un’altra ipotesi. Immaginate che, arrivando in ospedale con il dito in cancrena, vi dicano che tagliandolo subito, ne crescerà un altro ancora più bello e più funzionale di prima: pelle liscia, unghia perfetta, articolazioni elastiche…
Cosa provate ora a livello emotivo? Provo ad azzardare che sia qualcosa di simile a curiosità se non proprio gioia. Entusiasmo, speranza, elettricità prendono spazio per spingervi immediatamente all’intervento.
Morale: non avrete un dito nuovo, ma sicuramente avrete ancora tutto il braccio e scoprirete presto nuovi modi per usare questa mano nuova.

Il punto cardine di queste riflessioni in cui ho scelto di spingervi è che si tende a preservare ciò che si conosce, anche quando non ci piace. Perché è familiare.
Se ad esempio sono cresciuto in un ambiente in cui ho ascoltato spesso frasi tipo “eh, brutta la vecchiaia: con il tempo arrivano capelli grigi e dolori”, “siamo nati per soffrire!”, “non fare come la zia zoppa” (la nonna pazza, la cugina anoressica, il nonno cieco…) può scattare un meccanismo molto nascosto attraverso il quale ci si identifica con il dolore, o la malattia o la sofferenza. Spesso fino a diventare qualcosa di simile a “soffro, dunque esisto”.
Pensate al detto “ho le farfalle nello stomaco” che a volte si sente usare quando una persona è innamorata. Spesso diventa il parametro per stabilire se si è o non si è innamorati del proprio partner (in realtà è un eccesso di adrenalina, che ha i giorni contati perché il corpo non può resistere ad eccessi per un tempo troppo lungo) e nel tempo questa condizione fisiologica viene ricercata come sinonimo di benessere affettivo, quando in realtà è una difficoltà fisica manifestata dallo stomaco.
Un altro elemento che può spiegare la scelta (seppure inconsapevole) dello stato di dolore è il divieto antico di piangere o lamentarsi. Se da piccolini ogni volta che ci si sbucciava un ginocchio e si piangeva, si veniva rimproverati perché ci si stava lagnando senza motivo (svalutazione del sentire altrui), ci si è trovati nella condizione necessaria di reprimere la sensazione di dolore. Dato che il dolore è realmente percepito, la frustrazione di non essere capiti genera un sentimento d’angoscia e di pericolo: non c’è nessuno che mi aiuta a contenere, capire, prendermi cura di ciò che provo. Io non vado bene, sono un debole, quindi è meglio se nascondo e imparo a non sentire (come nel caso del paziente con l’orologio sul polso bruciato).
In questi casi si arriva a livelli simili del “CIPA” (acronimo di Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis, Insensibilità Congenita al Dolore con Anidrosi) conducendo ben presto la persona tutta in condizioni di accumulo esplosivo. Questo vale sia per la rabbia inespressa, sia per dolori fisici che non mi consento di percepire, come in una sorta di ipnosi autoindotta. Finché non diventa più possibile trattenere, contenere, nascondere.
In letteratura molti autori hanno ipotizzato che esista una sorta di “patto di sangue” non scritto per appartenere ad un nucleo familiare. C’è chi ne parla in termini di copione familiare (E.Berne) per spiegare che ogni individuo appena nasce deve rispondere ai requisiti richiesti dal resto del nucleo che lo accoglie; chi in termini di sistemi cibernetici omeostatici (B. Hellinger con le costellazioni familiari). Per questi autori, il focus del lavoro terapeutico va impostato sull’acquisizione della consapevolezza dei propri vantaggi reconditi.
Per fare un esempio molto semplice, se i miei genitori in qualche modo mi hanno fatto capire che apprezzano la compiacenza e i sorrisi, tenderò a compiacere e sorridere anche quando sento rabbia perché questo è il vantaggio di continuare ad appartenere a quel tipo di famiglia, con quelle regole/valori. Il dramma è che essendo cresciuti così, sentiamo che tutto è “normale” e se ci viene il mal di testa è perché magari ho dormito troppo poco.
In altri casi il vantaggio può essere l’aver sperimentato di poter ricevere attenzioni e carezze solo quando si è malati.
In altri ancora si può essere registrato un giudizio negativo nei confronti della “leggerezza” che nel tempo conduce al bisogno di “drammatizzare” tutto per poter pensare di sé stessi di avere uno spessore.
Beau Lotto, neuroscienziato dell’University College di Londra, ricercatore nell’ambito delle percezioni, suggerisce di considerare “il nostro cervello come l’incarnazione fisica degli automatismi percettivi dei nostri antenati (B. Lotto, “Percezioni”, Bollati Boringhieri, 2017, pp.15). L’autore accorda a questi automatismi la responsabilità piena di molti dei nostri problemi.
Qui ho un altro aneddoto molto esplicativo. Un giorno una paziente mi raccontò di essere molto arrabbiata con la madre perché dopo generazioni intere aveva scoperto il perché del rituale del tacchino del ringraziamento. Da sempre prima di infilarlo nel forno si doveva tagliare una fetta a destra e una a sinistra. Più volte era stato chiesto spiegazione di questo gesto alla madre, alle zie, alla nonna, ma sempre era stato risposto “non so, si è sempre fatto così!”. Finché quella settimana, si era trovata a parlare della cosa in presenza di un prozio che ridendo ha commentato: “Ma era solo perché avevano il forno troppo piccolo! Oggi con i forni così grandi non serve più!”

Morale: sempre bene coltivare creatività, curiosità, elasticità mentale!

Cosa fare alla luce di tutto ciò?

Per quanto sia un’idea folle, proverò a tracciare una sorta di mappa di orientamento, che possa risultare utile nella vita pratica.

Primo esercizio

  • Scrivi con attenzione tutte le frasi ricorrenti che ricordi di aver sentito nella tua famiglia, che riguardassero il dolore (sia fisico che emotivo)
  • Scrivi cosa ti rispondevano o come reagivano ogni volta che piangevi
  • Fai una lista di tutte le persone che compongono la tua famiglia, dai nonni in poi e scrivi a fianco i loro sintomi rispetto al dolore (sia fisico che emotivo) e le modalità con le quali hanno vissuto la cosa.
  • Chiediti cosa devi fare per appartenere profondamente alla tua storia familiare? Cosa non ti è concesso assolutamente? Che cosa non ti perdonerebbero mai?

 

Successivamente, osserva quanto hai scritto e chiediti in che modo tutto ciò influenza oggi la tua vita.

Secondo esercizio

Per questo esercizio è necessario che tu non bari!!! Devi seguire lo step senza guardare il secondo passaggio.

Scrivi una lista di almeno 10 frasi che inizino con “io non riesco…….”

Ci sei?

L’hai completata?

Fai ancora uno sforzo, 6 sono poche, devi arrivare almeno a 10!

Bene.

Ora leggi tutte le frasi che hai scritto lentamente. Ascolta cosa provi. Poi prendi la penna rossa e cancella il verbo “riesco” e al suo posto scrivi “voglio”.

Ora le tue frasi dicono cosa tu “non vuoi”. Rileggile tutte con attenzione e prova a sentire quale fa più stridore, o dolore, o rabbia. Quale risuona di più.
Ultimo passaggio: chiediti quale potrebbe essere il vantaggio nascosto, profondo, che ti ha condotto a “non volere” quella cosa.

Se sarai sincero con te stesso, potrai scoprire cose interessanti.

Terzo esercizio

Chiudi gli occhi, prendi contatto con il respiro, cerca di rilassarti più che puoi. Quando ti sentirai abbastanza rilassato, cerca di immaginare di diventare tu stesso/a il tuo dolore. Chiediti che forma hai, se hai un odore, un colore. Al tatto come risulti? Quando ti senti abbastanza identificato, inizia a descriverti, senza aprire gli occhi e a presentarti. Quando avrai finito di presentarti spiega al “te” che ti è di fronte, che cosa sei venuto a fare, che cosa vuoi dirgli, cosa deve fare affinché tu possa lasciarlo/a in pace.

 

Buon divertimento, Buona vita!

 

 

 

 

 

 

 

 

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