Che cosa succede nella tua vita quando ti senti triste? Attorno a te ci sono persone che svalutano la tua tristezza? Ti senti incapace di reagire come gli altri ti suggeriscono?
Proviamo a formulare una domanda diversa: poiché le emozioni di base (felicità, rabbia, paura, disgusto, tristezza, sorpresa) hanno funzione di conservazione della specie, a che cosa mi serve la tristezza?
Proviamo a fare un piccolo passo indietro.
Molto di ciò che si trova nel web, si concentra nel differenziare la “vera depressione” da uno stato di tristezza “passeggera”. Nella mia esperienza professionale ho sperimentato che questa differenziazione non esiste e che qualsiasi stato depressivo origina da una serie (spesso complessa) di “percezioni distorte”.
Provo a spiegarmi meglio: il dialogo interno che attivo (cioè cosa penso) in ogni circostanza della vita, fornisce una spiegazione e una “tonalità” umorale a ogni cosa.
Facciamo un esempio.
“Immaginate di avere un appuntamento con un amico/a alle 18.00 in un punto specifico della città ad entrambi ben noto perché spesso luogo di incontri comuni. Alle 18.30 non si vede ancora nessuno. Provate a chiamare: il telefono risulta non raggiungibile. Si fanno le 19.00: ancora nulla. Nessun messaggio, nessuna telefonata, telefono non raggiungibile.”
In questa situazione, quali sono le emozioni e i pensieri che si fanno largo dentro di voi?
- E’ successo qualcosa di grave. Sono preoccupato/a.
- Ha perso il telefono. Sono triste.
- Si è dimenticato/a di me. Sono arrabbiato/a.
- Controllo mille volte la chat dell’appuntamento per essere sicuro/a di non aver sbagliato luogo. Mi sento inadeguato/a.
- ……………….
Come possiamo osservare, la spiegazione dell’accaduto che ci diamo mentalmente determina uno specifico stato d’animo. Leggere il mondo è un fatto di “lenti” e spesso un evento o un dato della propria vita può risultare difficile da inquadrare, o difficile da “digerire”. Ciò non significa che non si possa fare.
Credo sia fondamentale distinguere uno stato depressivo da un periodo di tristezza: sempre più frequentemente si utilizza la frase “sono depresso” come una gergalità normale, condivisa e questo è molto pericoloso.
La possibilità di trovare in rete qualsiasi tipo di informazione è sicuramente una grande conquista dell’essere umano e come ogni cosa ha il suo “rovescio della medaglia”: si crea il rischio di riconoscersi in sintomatologie descritte, (potenzialmente tutte dato che ognuno di noi possiede tutti i tratti caratteriali di ogni “patologia”).
Spesso avviene che si presentino al mio studio persone con un’autodiagnosi: “sono depresso”, “sono un ossessivo”, “soffro d’ansia”, “ho attacchi di panico”, …
Il bisogno di dare nome al proprio disagio, diventa più importante della possibilità di sanarlo. Come se avere un nome fosse già la cura.
E qui inizia la costruzione vera della trappola!
Sì, perché iniziando a pensare a se stessi come a un “depresso” o a un “ossessivo” o a un malato di “attacchi di panico”, in qualche modo lo si diventa.
Il più delle volte il disagio nasce dalla difficoltà di saper usare la propria macchina: corpo-mente. Abbiamo costruito un’era in cui sentire le emozioni e imparare a distinguerle è quasi una vergogna.
La verità rimane che le emozioni sono da guida per andare nel mondo in modo funzionale: basta rieducarsi a esse, imparare a sentire, scoprendo che non si rischia di rimanere devastati.
È necessario riappropriarsi dei propri stati d’animo per non vedersi come dei malati. Non perché ci sia qualcosa di male nell’esserlo, ma perché percependosi malati si finisce in una grande confusione.
Le nostre emozioni sono un evento del tutto naturale. La paura ad esempio fa parte dell’esperienza umana. A volte diventa depressione o ansia, ma solo a volte. Nella maggior parte dei casi è uno stato d’animo che protegge e conduce a una soluzione. Se ogni sentimento percepito che devia da una norma è interpretato come un problema da curare, ne conseguono solo due ipotesi: o non possiamo sentire più nulla, rinunciando così anche ai piaceri della vita, o ci consideriamo tutti malati.
Qui s’introduce un nuovo dato: chi si rivolge a uno Psicologo o Psicoterapeuta?
Anche su quest’argomento c’è molta confusione, sia in rete sia nella vita quotidiana. Soprattutto in Italia rivolgersi a un professionista del settore psicologico significa “essere pazzi”.
La realtà, semplicissima, è che si può chiedere aiuto in qualsiasi circostanza si senta il desiderio di fare chiarezza dentro di sé.
A volte sono sufficienti due o tre incontri per diradare la nebbia e tornare con entusiasmo alla propria vita progettuale; a volte forse si può decidere di esplorare, per il piacere di conoscersi meglio e imparare a gestire sempre meglio ciò che ci accade.
Non voglio entrare ora nella descrizione della differenza tra uno Psicologo e uno Psicoterapeuta, lo farò in seguito.
Ciò che percepisco urgente è incoraggiare chiunque si senta triste e in difficoltà nel vivere la sua tristezza, a non sentirsi malato e a chiedere aiuto per elaborare armonicamente ciò che sente.
Non sempre le persone che ci circondano possono darci aiuto: non perché non lo desiderino o perché non ci amino. Semplicemente perché spesso non sanno di che cosa si stia parlando e perché non si sono formati per anni (prima di tutto con un lavoro su se stessi) alla possibilità di accogliere una difficoltà altrui.
Se hai voglia di diradare un po’ la nebbia che non ti consente di vivere appieno la tua vita contattami al 3356138269 o scrivi a psi@claudiagiampieri.it