Genitori imperfetti 5

Eccoci arrivati all’ultima funzione genitoriale: Tradurre

         Devo confessare che questa è la funzione genitoriale che amo di più. Quella che vivo costantemente ad ogni seduta di terapia, quella più creativa, o quantomeno che io percepisco come quella maggiormente creativa. 
Perché?      
Perché riuscire a parlare di qualcosa che non è ancora stato pensato, o che è stato pensato in una modalità poco funzionale è veramente una gran bella sfida.
         Da adolescente, in un tempo che Laplanches e Pontalis avrebbero definito un “troppo presto” mi sono trovata tra le mani un libro di Marie Cardinal: “Le parole per dirlo”. All’epoca mi turbò molto senza poter comprendere bene perché; poi nel futuro lo rilessi diverse volte e, ad oggi, lo trovo ancora uno dei romanzi autobiografici più potenti nel ramo della psicoanalisi. È la storia della sua analisi e del percorso doloroso per trasformare l’indicibile in parole che, oltre a poter essere pronunciate, consentono all’oggetto di essere pensato!

È difficile per un adulto normo-nevrotico che non abbia subito grossi traumi, comprendere cosa significhi non riuscire a dare parole a qualcosa, non poterlo pensare né raccontare; ma nel mondo delle sofferenze ”fuori misura” ciò accade molto spesso. Sto parlando di vissuti come ad esempio l’esperienza dei campi di concentramento in cui si perdeva la dimensione ordinaria dell’ordine dell’umano.     

Ecco, un bambino può trovarsi spesso in quella dimensione nei primissimi tempi, perché tutto è nuovo e potenzialmente violento e non pensabile. Perché, appunto, esiste un “troppo presto”.

La pellicola che meglio esprime questa funzione genitoriale è “la vita è bella” di Benigni. Cosa fare quando la realtà è innegabilmente insopportabile? In questa storia le parole narranti del padre trasformano il campo di concentramento in un gioco.

La funzione della traduzione si rifà ai concetti Bioniani di reverie, elementi alfa, elementi beta, cioè la funzione genitoriale di rendere pensabile il mondo, masticabile l’ostico, soprattutto quando risulta troppo difficile e indigesto.

        
La traduzione è la funzione che ri-partorisce l’infante: far nascere il bambino da un punto di vista psichico che serve ad affrontare “l’estraneo”, l’ignoto, il diverso, per affiancare il desiderio di esplorazione, alla paura.        
Come si fa ad incontrare le diversità (interne ed esterne)?
Attraverso qualcuno che ti porta nel mondo con delle parole che possano essere già comprensibili, che rendono il mondo tutto pensabile
La traduzione quindi, rende pensabile tutto ciò che non lo è in partenza.

In principio era il verbo, noi siamo fatti di parole!

Come si traduce il pianto dell’infante? Sintonizzandosi e mettendo parole (piccolo mio, forse hai caldo; piccola mia hai ragione, hai fame….)

         La traduzione ha un punto di scivolamento nel potersi trasformare in disfunzione, sia quando non cerca parole pensabili, sia quando “interpreta troppo”, cioè quando non fa un passo indietro quando è possibile, quando anticipa!

Ciò significa che è fondamentale calibrare bene il giusto ritardo della risposta da parte della madre, per lasciare lo spazio/tempo al bambino per sforzarsi di chiedere ed esprimere.         
Un “eccesso di madre” produce psicosi o iper-adattamento di un bambino che sente di aver solo la possibilità di compiacere aderendo alle proiezioni materne/genitoriali, senza poter sentire il proprio bisogno.

Con quest’ultima funzione genitoriale vi saluto e vi auguro buone vacanze.

A presto con altri contenuti.

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